Umberto Eco e il fascismo eterno

    Quando Franklin Delano Roosevelt sosteneva che la vittoria del popolo americano e dei suoi alleati sarebbe stata "una vittoria contro il fascismo e il vicolo cieco del dispotismo che esso rappresenta” era il 23 settembre 1944 e la seconda guerra mondiale non era ancora conclusa. Il dispotismo cui faceva riferimento Roosvelt si era rivelato un sistema efficace per colmare il vuoto di potere emerso in Italia al termine del primo conflitto mondiale, ma per riuscire a insinuarsi nella crisi dello Stato liberale era stato necessario ricorrere a una notevole dose di retorica e di populismo.

    In occasione della conferenza in lingua inglese che tenne alla Columbia University il 25 Aprile 1995, da cui venne poi tratto in traduzione italiana Il fascismo eterno, Umberto Eco fornì una spiegazione illuminante del rapido successo di Mussolini e del tipo nuovo di dispotismo da lui ideato: il leader del fascismo riuscì a cavalcare quella crisi perché "non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica", tant'è che "cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti".

    Sebbene sia stato un movimento politico essenzialmente retorico, privo di un'analisi teorica propria della società e tutt'al più in grado di dar vita a una sintesi opportunistica e precaria tra diverse visioni del mondo, il fascismo fu anche "il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace". Proprio questa sua consistenza retorica permise a Mussolini d'incunearsi nel tessuto politico italiano raccogliendo consensi in modo trasversale e fornendo l'impressione di poter operare una sintesi tra diverse istanze ideologiche.

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Don Abbondio, Don Quijote e il sentimento del contrario

 

    L'arte non può nascere da una aggregazione di elementi, da una somma o da una combinazione razionale di fattori. Secondo Pirandello "la creazione dell'arte è spontanea: non è composizione esteriore, per addizione d'elementi di cui si siano studiati i rapporti: di membra sparse non si compone un corpo vivo, innestando, combinando. Un'opera d'arte, insomma, è, in quanto è <<ingenua>>; non può essere il risultato della riflessione cosciente".

    Anche per Pirandello, come già per Leopardi, una certa ingenuità riesce a operare sintesi, a sciogliere contrasti: essa sa far nascere, oltre che talora il pianto, anche un sorriso spontaneo e naturale. Un sorriso più interiore che esteriore, e per questo luminoso e franco, a volte appena accennato, che allude a tutto un retrogusto della vita che è fatta appunto di contrasti, di scintille e mediazioni, di opposizioni che si sciolgono in nuova confidenza e fiducia.

    L'umorismo porta alla luce secondo Pirandello l'esperienza di un tale contrasto, dell'opposizione latente tra discorso cosciente e lo sviluppo del suo complemento, e cioè di quel "sentimento del contrario" che si profila in maniera spesso silenziosa sul fondo della coscienza. Nel suo saggio sull'umorismo Pirandello scrive infatti: "Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nell'umorista si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene infine ad assumere lo stesso valore del sì. Magari può fingere talvolta l'umorista di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli parla l'altro sentimento che pare non abbia il coraggio di rivelarsi in prima; gli parla e comincia a muovere ora una timida scusa, ora un'attenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora un'arguta riflessione che ne smonta la serietà e induce a ridere. Così avviene che noi tutti dovremmo provar disprezzo e indignazione per Don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e spesso un matto da legare Don Quijote; eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia per quello, e ad ammirar con infinita tenerezza le ridicolaggini di questo, nobilitate da un ideale così alto e puro".

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Kant, Leopardi e la prefigurazione di un limite

 

 

   Nel suo Kant e Leopardi, Loretta Marcon riporta in maniera abbastanza estesa un bel ritratto che Ehregott Andreas Christoph Wasianski fa di Immanuel Kant: "Non diceva male di nessuno. Scansava i discorsi intorno ai brutti vizi dell'uomo, come se la menzione di cattive azioni offendesse la decenza nelle conversazioni della gente onesta […]. Rendeva giustizia a ogni merito e cercava di procurare un'occupazione a persone benemerite, a loro insaputa. Non un'ombra di rivalità in lui e, meno ancora, di gelosia di mestiere. Faceva del suo meglio per aiutare il principiante e agevolargli la buona riuscita.  Dei colleghi parlava con il massimo rispetto […]. Invitava alla mensa molti colleghi e sapeva valutare degnamente i pregi di ciascuno. Per questa universale benevolenza verso gli uomini era incapace di pensare o parlare con disprezzo di qualche condizione umana; il suo disprezzo colpiva gli indegni individui di qualsiasi condizione, ma raramente lo esprimeva ad alta voce. […] Alla cordiale tenerezza di Kant era unita la più salda fermezza di carattere. Quando dava la sua parola, incrollabile com'era, essa valeva più dei giuramenti di altri".

    Nel saggio della Marcon questi tratti del carattere del grande filosofo tedesco sono accostati ad altri tratti, per certi versi con questi sintonici, della personalità di Giacomo Leopardi, che secondo Giuseppe Rensi, oltre ad essere il maggior poeta italiano dell'Ottocento, fu in quel secolo anche il nostro filosofo più rilevante e originale.

    Leopardi probabilmente conosceva la Critica della Ragion pura di Kant nella traduzione italiana del Mantovani, ma le maggiori affinità tra i due non emergono tanto nell'ambito teoretico, quanto piuttosto sotto il profilo morale, dato che entrambi attribuivano agli aspetti etici dell'esistenza un rilievo fondamentale all'interno delle rispettive concezioni della vita. Secondo Francesco Moroncini, per esempio, l'etica leopardiana, pur non appoggiandosi ad alcuna religione positiva, "è però altamente umana, e non punto lontana dalla morale evangelica", e Walter Binni considerava Leopardi "la più grande coscienza morale del nostro 800".

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Andrea Emo e le metamorfosi dell'abolirsi

    Note caratteristiche: "persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia". Così si definiva Andrea Emo, il filosofo italiano rimasto per decenni nascosto nei suoi quaderni, prigioniero di una solitudine letteraria che gli permise di tessere quotidianamente la tela del suo pensiero. Scoperto da Massimo Cacciari un po' di anni fa, la figura di Emo concilia due aspetti apparentemente contrastanti. In realtà, scrive Cacciari, "la solitudine del personaggio e il carattere violentemente sistematico del suo pensiero formano una polarità indissociabile".

   Emo scrisse perché lo scrivere lo aiutava a pensare e più precisamente a pensare intorno al suo centro, alla sua incessante scoperta e trasfigurazione sistematica; ma lo aiutava anche a cercare l'eco di un senso cui rivolgersi, tanto che se Kafka paragonava la poesia a una forma di preghiera Emo estendeva questo paragone alla scrittura in generale: "noi scriviamo non perché ciò che scriviamo abbia il minimo valore, ma per un atto di fede manifestato come una preghiera".  

   In questa trama sottile e leggera, di cui ci fornisce un ampio ritaglio una bella antologia curata da Massimo Donà e Raffaella Toffolo (La voce incomparabile del silenzio, Roma, Gallucci editore) si avverte l'influenza di filosofi conosciuti già in gioventù, come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, di cui Emo fu allievo, e di altri letti in un fasi successive della vita, come Martin Heidegger. Ma nei suoi taccuini si avvertono anche molteplici analogie con gli orizzonti filosofici e letterari di scrittori tra loro assai diversi, come per esempio Emile Cioran o Simone Weil, come Leopardi, Nietzsche o Borges.

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I silenzi musicali della legge

 

   Un giurista dotato di raro spessore filosofico, Vincenzo Vitale, ma anche lo scrittore italiano che forse meglio di altri ha raccolto l'eredità letteraria di Leonardo Sciascia, riflette sul rapporto tra il silenzio, la musica, la mistica e il pensiero giuridico, suggerendo prospettive e accostamenti che possono facilmente risultare illuminanti e preziosi per un lettore attento, incline a restare in ascolto della brezza del silenzio. I rapporti tra questi ambiti apparentemente tanto distanti, quali emergono da L'esperienza giuridica del silenzio (Mimesis, 2018) sembrano infatti preordinati proprio da un Dio che "dimora e si rende percepibile nel silenzio di una brezza leggera, mai nel fragore del mondo o nel trambusto delle cose degli uomini".

   Forse nessuno meglio di Ignacio Larranaga "ha saputo esprimere questa intima solidarietà fra il silenzio e Dio, affermando che 'Silenzio è il nuovo nome di Dio… Dio è silenzio da sempre e per sempre. Opera silenziosamente nella profondità delle anime'". Ma non è il solo: tra quelli non menzionati da Vitale potremmo citare anche Joë Bousquet, per il quale "c'è un solo Dio", ed "è il silenzio di Dio"; o Jean Paul Sartre, per il quale "Dio è il Silenzio, Dio è l'Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini"; così come potremmo ricordare molti pensatori, dal medioevo fino a Simone Weil, che hanno fatto di questa relazione un motivo ispiratore della loro mistica.

  Certo, il silenzio può essere declinato in molti modi. Per  Miguel de Molinos ce ne sono tre: il primo, perfetto, fatto di parole; il secondo, ancor più perfetto, di desideri e il terzo, perfettissimo, di pensieri; e se al primo si giunge attraverso la virtù, al secondo si può arrivare attraverso la quiete, e al terzo mediante il raccoglimento interiore, è solo "non parlando, non desiderando e non pensando" che si può arrivare "al vero e perfetto silenzio mistico, nel quale Dio parla con l’anima, si comunica e le insegna nel suo più intimo fondo la più perfetta e alta sapienza”.

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Keynes, il leninismo e i destini del capitalismo

 

      Bertrand Russell racconta che ogni volta che andava a cena con John Maynard Keynes gli sembrava di essere completamente stupido. Di certo, la conversazione con quello che è considerato da molti il più grande economista del secolo scorso non doveva risultare noiosa o poco interessante, né priva di osservazioni acute e lungimiranti sul presente e sul futuro. Alcune di queste furono raccolte in volume per il lettore italiano già nel 1968, per essere riproposte in una nuova edizione tre anni fa (J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, Il saggiatore, Milano, 1917).

 

   In uno dei brevi articoli contenuti nel volume, che s’intitola Breve sguardo sulla Russia d’oggi, Keynes si sofferma ad analizzare la situazione nella Russia sovietica nel 1925, e cioè un anno dopo la morte di Lenin, quando ancora l’arcipelago Gulag non esisteva. Come altre religioni nuove, secondo Keynes il leninismo “non deriva il suo potere dalla moltitudine, ma da una piccola minoranza di convertiti entusiasti. […]  Come altre religioni nuove, perseguita senza giustizia o pietà chi le resiste attivamente” ed “è privo di scrupoli”, “pervaso da ardore missionario e da ambizioni ecumeniche”. In fin dei conti, tuttavia, l’affermare che “il leninismo è la fede di una minoranza di fanatici che perseguitano e fanno proseliti, guidati da ipocriti, significa dire, né più né meno, che è una religione, e non soltanto un partito, e che Lenin è un Maometto e non un Bismarck”.

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Pentimento e perdono

   Intorno a La fragilità del male di Dietrich Bonhoeffer.


   “Chi ama non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,” si legge nella Prima lettera ai Corinzi (13:5), e Dietrich Bonhoeffer, ne La fragilità del male, prende spunto da questo passo per osservare che, mentre la giustizia sembra illuminarci la strada “determinando il bene e il male, l’amore al contrario è cieco, consapevolmente cieco. Vede il male, ma non ne tiene conto: perdona. Soltanto l’amore può farlo. Dimentica. Non serba rancore”. Questo costituisce a suo avviso, e certo non solo per lui, un punto centrale per il cristianesimo: “se solo comprendessimo questo concetto: l’amore non serba rancore. Ogni giorno è un giorno nuovo che affronta con rinnovato sentimento, dimenticando il passato. Per questo motivo gli uomini si fanno beffe di lui, lo scherniscono. E nonostante questo continua ad accrescersi sempre di più”.
   Gesù dice anche a Pietro di perdonare non “fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, 18: 21-22) e ciò perché “perdonare e scusare non sono azioni che si contano o che hanno un limite. Non preoccuparti se hai ragione oppure no. Spetta a Dio decidere. Tu puoi farlo senza fine, perché il perdono non ha inizio e non ha termine. Si verifica quotidianamente e di continuo, perché proviene dal Signore. È la liberazione da ogni ostilità nei confronti del prossimo, perché così siamo liberati da noi stessi. Dobbiamo rinunciare al nostro proprio diritto per aiutare e servire l’altro”.

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Leibniz, Kant e il rapporto della filosofia con le scienze secondo Ernst Cassirer

 

   Sigmund Freud sostiene che Leibniz sia stato l’ultimo uomo ad aver saputo tutto. Dopo di lui, già con l’Enciclopedia divenne chiaro che lo scibile umano non potesse più essere padroneggiato da una mente sola. La filosofia, che fino a quel momento era stata una sorta di coordinatrice generale di tutte le attività di ricerca nei campi più disparati, perse questa funzione. La “vecchia metafisica” – come la chiama Hegel – che aveva svolto quella funzione più di ogni altra sua componente e che per Cartesio ne costituiva il fusto centrale, venne da Kant relegata nell’alveo delle attività pseudoscientifiche, buona tutt’al più a mostrare l’aspirazione legittima e profonda dell’anima umana a conseguire un sapere assoluto e incondizionato. Da questo punto in poi, il rapporto tra la filosofia e le scienze particolari sarà sempre più problematico e incerto.

   Con Kant, la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia: se infatti una volta si poteva eventualmente “convenire con l’orgogliosa pretesa della facoltà teologica di considerare quella filosofica la sua ancella”, dopo Kant è rimasta aperta la questione se “l’ancella precedesse la sua graziosa signora con la fiaccola o le reggesse lo strascico”. Ma nel secolo dei lumi, secondo Ernst Cassirer, non solo la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia, ma si trova anche a dover ripensare radicalmente le proprie relazioni con le altre scienze particolari.

  Tali relazioni costituiscono il filo rosso che lega insieme i quattro saggi brevi di Ernst Cassirer raccolti nel volume che qui presentiamo (Ernst Cassirer, Kant e la biologia moderna e altri scritti, a cura di Riccardo De Biase, Marchese editore, Grumo Nevano (Na), 2014). Esse risultano, dopo Kant, sempre più precarie, in quanto pare sempre più incrinarsi la fiducia nella possibilità di una connessione sistematica del sapere e nell’esistenza di uno spazio intellettuale omogeneo. Mentre nei sistemi del razionalismo classico, per esempio, “la filosofia appariva come la portatrice della fiaccola della scienza, le mostrava i fini e le batteva le vie. Al contrario, nell’interpretazione del positivismo, veniva sempre più sospinta al rango di semplice seguace, seguiva la scienza come ‘lo spigolatore segue il mietitore’. Ma, in linea di principio, è possibile – e questa è secondo Cassirer la vera svolta post-kantiana – anche un terzo tipo di rapporto. La filosofia odierna non può tornare indietro a quell’ideale di ‘dottrina della scienza’, come aveva indicato ancora Fichte nel suo scritto Sul concetto di dottrina della scienza; non può mostrare un sommo, incondizionatamente certo principio metafisico per ricavare da questo, facendone discendere deduttivamente secondo forma e contenuto, il tutto del sapere. E tanto meno può essere compito della filosofia tentare di pacificare le lotte interne che sempre di nuovo si aprono e si mostrano nelle scienze, per portarvi pace attraverso rapide soluzioni. Essa, piuttosto, sta nel mezzo di queste lotte, non potrà né vorrà altro che stare in mezzo a loro in quanto co-disputatrice. Invece di superare le opposte posizioni mediante un’affermazione di potenza del pensiero, o di fare il tentativo di conciliarle mediante qualche semplice compromesso, la filosofia deve, piuttosto, renderle trasparenti in tutta la loro serietà e in tutto il loro peso” (ivi, pp. 39-40).

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Storie di fate, di eremiti e di pulcini d'oro

 

     Una bella poesia di Alcmane, ricordo dei tempi del liceo, recita così: “Dormono le cime dei monti /e le vallate intorno, i declivi e i burroni; / dormono i rettili, quanti nella specie/ la nera terra alleva, le fiere di selva, / le varie forme di api, / i mostri nel fondo cupo del mare; / dormono le generazioni /degli uccelli dalle lunghe ali”.

    Tra le alpi apuane che guardano il mare, nelle notti d’inverno, quando uccelli notturni facevano udire il loro lugubre verso e qualche lupo il suo richiamo dal folto del bosco, in case dimesse e intorno a un focolare si raccontavano storie. Su queste montagne i vecchi “non conoscono il termine ‘leggenda’; essi conoscono semplicemente delle storie: leggenda è per loro un termine sconosciuto e alla richiesta di raccontare una leggenda ci guardano con meraviglia e imbarazzo. La ragione di tutto questo sta nel fatto che il termine ‘leggenda’ è qualcosa di codificato e classificato secondo determinati motivi e schemi che sono stati definiti dal mondo della cultura. Tutto ciò che l’anziano della montagna ci racconta è una storia che lui stesso ha sentito raccontare, alla quale si mescolano ricordi personali, fatti accaduti in passato, eventi particolari caricati di elementi fantastici e così via. Non è quindi una semplice storia o ‘leggenda’ quella che ci comunica, bensì una cultura ben precisa: quella che esprime le difficoltà della vita quotidiana, le fatiche del lavoro, l’eterna lotta fra il bene e il male, le paure, i sogni e i tentativi di dare una giustificazione a fatti misteriosi e inspiegabili”.

    Così scrive Paolo Fantozzi, nell’introduzione a questo suo Storie e leggende delle Alpi Apuane. Sulla presenza del marmo, quello stesso che Michelangelo veniva a prelevare sin qui per scavarvi i suoi capolavori, di storie c’è n’è una particolarmente suggestiva che può forse essere riassunta senza minarne troppo il senso: il signore aveva dato incarico a un angelo scansafatiche di formare gli Appennini mescolando il contenuto di vari sacchi, ma mentre passava sopra le apuane decise di fermarsi su una nuvola e di farsi un pisolino. Risvegliato e rimproverato all’improvviso da un altro angelo, si riscosse allarmato urtando uno dei sacchi e facendone precipitare il contenuto. Fu così che il marmo si sparse sulle apuane.

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Borges, Macedonio e la Belarte

 Macedonio Fernández <<precursore>> di Borges in un saggio di Daniel Attala

 

   Quando in qualche scritto si parla di Macedonio Fernández è ormai invalsa la consuetudine di chiamarlo per nome, al contrario di quanto si fa normalmente con tutti gli altri autori dotati di un cognome. Si deve probabilmente a Jorge Luis Borges quest’abitudine, che contribuisce a rendere Macedonio subito familiare a chi si avventura nei suoi scritti, sebbene contengano tesi desuete e assai sorprendenti.

    Borges eredita l’amicizia di Macedonio da sua padre, ma ancor prima di essere un suo amico, Macedonio fu per lui un maestro influente, tanto da indurlo a rilevare che nessuna persona famosa lo aveva “mai impressionato come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, – scrive Borges -  la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, piuttosto che l’affermazione magistrale. Non pontificava mai: la sua eloquenza era di poche parole e perfino di frasi lasciate a mezzo. Il tono abituale era di cautelosa perplessità”.[1] L’insieme di queste ed altre prerogative del suo amico e maestro lo porteranno poi a dire, e lasciar scritto sulla sua tomba, che il non imitarne il canone, letterario e filosofico, avrebbe costituito “un’imperdonabile negligenza”.[2] 

    Macedonio, dal canto suo, “paragona Borges al poeta spagnolo J.R. Jimenez: <<tanto intelligente quanto dolorante di passione e vita, che sembra preoccuparlo>>. L’intelligenza è in effetti, secondo Macedonio, l’unico talento di Borges visibile nella sua letteratura; si tratta però, a suo avviso, di “un talento pratico, d’una muscolatura dell’anima senza interesse per l’Arte, né più né meno che le capacità dell’atletismo”.[3]

    Ma se Borges è per Macedonio il poeta dell’intelligenza, è anche paragonabile a Goethe, il quale, pur essendo non meno intelligente, avrebbe disdegnato tuttavia questo talento non facendone mai sfoggio, né diretto né indiretto.[4] Per quanto questo paragone con Goethe sia sfavorevole a Borges, secondo Daniel Attala - maestro di conferenze all’università di Bretagna Sud e autore, tra l’altro, di questo Macedonio Fernández <<précurseur>> de Borges, (Press Universitaires de Rennes, 2014) - esso nasconde e a un tempo rivela l’alta opinione che Macedonio si era fatto di lui, giudicandolo, quando aveva solo venticinque anni, come “il prosatore più dotato della lingua spagnola (di tutti i tempi – chiosa Attala, dato che non mette limiti all’elogio)”.[5]

    Tutta l’opera di Borges è attraversata dall’idea che l’io non esista, o che sia un’illusione: questa tesi gli è suggerita dal Buddhismo, da Schopenhauer e da Hume, ma ancor più direttamente proprio da Macedonio, per il quale c’è umanità solo laddove la passione intacchi il solipsismo di ciascuno e dove venga meno il legame tra la coscienza e il corpo. Ogni volta che parla di passione, riferendosi alla traslazione del vissuto di un io apparente dentro un altro io apparente, Macedonio evoca questa convinzione, che costituisce il terreno fertile per l’insorgere di una forma peculiare di misticismo, a sua volta fondata su una concezione precisa quanto radicale dell’amore.

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Non c'è nulla d'estraneo e tutto è uguale nella società della stanchezza

    La nostra è una civiltà della stanchezza. È quanto risulta dalla lettura di un saggio del filosofo coreano Byung-Chul Han, docente alla Unibesität der Künste di Berlino e già autore, oltre che de La società della stanchezza (Nottetempo editore), di diversi altri saggi capaci di far riflettere su temi attuali in maniera poco convenzionale.

   Secondo Byung-Chul Han il millennio da poco iniziato “non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) 2, il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività. Queste sindromi si sottraggono a qualsiasi tecnica immunologica che miri a respingere la negatività dell’Estraneo”.

   L’Estraneo e l’Eguale sono due categorie fondamentali per comprendere l’evoluzione della società in cui viviamo, così come la nozione di reazione immunitaria, che consente di declinare la relazione tra queste due nozioni estreme e contrapposte. Secondo l’autore “ogni reazione immunitaria è una reazione all’alterità. Oggi, invece, al posto dell’alterità abbiamo la differenza, che non provoca alcuna reazione immunitaria. La differenza post - immunologica, anzi post - moderna, non è più causa di malattia. Dal punto di vista immunologico essa è l’Eguale (das Gleiche). Alla differenza manca, per così dire, il pungolo dell’estraneità che provocherebbe una violenta reazione immunitaria. Anche l’estraneità si stempera in una forma di consumo. L’estraneo cede il passo all’esotico, visitato dal turista”.

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Massimo Cacciari e il primato della politica

 

   Potrà mai il capitalismo soddisfare quell’istanza di libertà che ne è a fondamento? Una politica autonoma potrà evitare che esso assuma sempre più le sembianze di una religione? Il politico per vocazione, il politico responsabile, è chiamato a rispondere a domande come queste. “Se è l’Ordine economico a dettare le nuove gerarchie di valore – scrive Massimo Cacciari ne Il lavoro dello spirito (Adelphi, 2020) -  esso non è in grado, per i suoi stessi principi, di risolvere al proprio interno l’idea della geistige Arbeit da cui quelle stesse gerarchie erano nate. Lavoro spirituale che ora può assumere la figura della scienza e dell’agire politico, ma che, nella sua essenza, significa liberazione da ogni lavoro comandato. È necessario un Politico che sappia rappresentare tale idea all’interno del sistema capitalistico, una Autorità politica che ‘convinca’ della sua perseguibilità – possibilità reale in quanto immanente al dominio stesso della forma comandata del lavoro. Il capitalismo non può fare a meno di agire anche una tale idea. Il suo sistema può salvarsi, e cioè credere e far credere di poter indefinitamente avanzare, soltanto facendosi politico.”

    Il ruolo della politica differisce in questo dalle altre professioni e da quello della scienza. Nel contesto della società contemporanea, “nessuna professione che si collochi nell’ambito del processo di razionalizzazione, e dunque faccia suo l’imperativo all’esattezza che esso richiede e la specializzazione che ne consegue, potrà decidere o aiutare a decidere nel contesto politeistico dei valori; nessuna professione disporrà mai di alcuno strumento valido per affermare quali fini debbano essere perseguiti nella Civitas, né alcun criterio per distinguere con chiarezza il divino dall’idolatrico”. Lo scienziato sociale avrà in questo scenario il compito di dimostrare come i valori presupposti siano frutto di una decisione che “non può essere a sua volta fondata. Ma nulla testimonia con più energia del dominio della forma occidentale di razionalità che la dimostrazione dell’irrazionalità di ogni gerarchia di valore”.

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In ritardo con la vita. In ricordo di Pia Pera

      Pia Pera ci ha lasciati quattro anni fa, pochi mesi dopo aver ultimato un romanzo di congedo dalla vita. Il genere non è noto, al contrario del romanzo d’apprendistato, ma di quest’ultima tipologia, in un certo senso, Al giardino ancora non l’ho detto costituisce una variante, dato che di quell’apprendistato qui si narra il momento decisivo e finale, il gesto di saluto doloroso e rasserenato che riesce a tesserne in qualche modo le fila.

     Pia Pera è stata una scrittrice, un’appassionata narratrice di orti e giardini, e una slavista. Nel ricordarne oggi l’anniversario della morte, avvenuta il 26 Luglio 2016, all’età di sessant’anni, in seguito alla Sla, vorremmo soffermarci proprio su quest’aspetto della sua produzione letteraria, e in particolare su di una sua splendida traduzione e cura dell’Evgenij Onegin di Aleksandr Puškin. 

    Nella sua traduzione Pia Pera accetta la sfida, decisamente ardua, di conservare i quattordici versi della strofa puškiniana, rinunciando tuttavia a riprodurne la complessa struttura metrica. L’adozione di versi liberi tende a conciliare la maggiore autonomia nella ricerca di una resa letterale con un ascolto interiore più aperto, conciliazione da cui la traduttrice e curatrice dell’opera si augura trapeli “qualcosa di quel ritmo e di quell’intonazione che, per chi possa apprezzarlo in russo, costituiscono il fascino maggiore del romanzo in versi di Puškin”.

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Un maestro e un amico. Ernesto Rossi e il suo ritratto di Gaetano Salvemini

 

    Era da pochi mesi finita la prima mondiale quando Ernesto Rossi conobbe Gaetano Salvemini. Fu una domenica a Firenze, in una saletta nei pressi del cimitero degli inglesi in cui lui ed altri si erano ritrovati per discutere di sistemi elettorali. C’erano una cinquantina di persone, per lo più collaboratori o lettori dell’Unità, la rivista che Salvemini diresse dal 1911 al 1920.

    In quella saletta un tizio stava parlando in mezzo a una gran confusione e continuò a parlare per più di un’ora. Alla fine del suo discorso nessuno ci aveva capito nulla e quando Salvemini prese la parola iniziò il suo intervento così: “l’amico che abbiamo ora ascoltato, ha detto che…” e a poco a poco – racconta Rossi - “fu come se, in un treno che è stato trascinato a lungo sotto la pioggia da una sbuffante macchina a vapore, qualcuno strusciasse col fazzoletto pulito sul vetro del finestrino sporco di fuliggine. Parlava ed il vetro diveniva sempre più limpido, e sempre più chiaro si vedeva il paesaggio fino al lontano orizzonte. Dopo avere riassunto non quello che aveva detto, ma quello che avrebbe dovuto dire il precedente oratore, Salvemini prese a sviluppare il filo delle sue deduzioni. Con una logica così semplice e così rigorosa che non sarebbe stato possibile non capire. Alla fine della sua esposizione il sistema della rappresentanza proporzionale, che prima ci sembrava un terribile rompicapo, era divenuto la cosa più semplice del mondo”. Allora, rivolto chi gli sedeva accanto, Rossi commentò: “per un intellettuale, chiarezza equivale ad onestà”.

    I primi passi dell’amicizia tra Rossi e Salvemini furono piuttosto difficili. Quando si conobbero Rossi aveva ventidue anni e nessuna esperienza politica: “ero andato al fronte – scrive - come volontario di guerra, non per Trento e Trieste, ma per impedire che il militarismo tedesco soffocasse, per tutta un’epoca, la libertà in Europa. Durante l’ora della cosiddetta ‘morale’, avevo letto e spiegato ai miei soldati I doveri dell’uomo di Mazzini. Tornato a Firenze, mutilato, non potevo ammettere che tutte le sofferenze patite e il sacrificio di tante giovani vite (avevo perduto al fronte anche mio fratello maggiore e i miei due migliori amici) venissero vilipesi dai socialisti, che erano stati in gran parte imboscati nelle fabbriche d’armi, e che, fino a Caporetto, avevano adottato la vile politica del <<non collaborare, né sabotare>>”.

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Una casa nuova e antica, per la poesia

  

   Difficile dire perché dei versi siano poesia. Difficile oggi forse più che mai prima, per il proliferare di gusti e scritture, di gesti artistici d’ogni tipo supportati da letture critiche lusinghiere verso un diffuso concettualismo o uno sperimentalismo enfatico. Difficile, se non impossibile, spiegare oggi perché una raccolta poetica possa stagliarsi sullo sfondo delle opinioni facili di questi tempi, in questo scorcio malato d’inizio millennio. L’unica possibilità residua è forse aggiungerne una alla lunga lista, una non meno approssimativa e incerta di ogni altra, che in null’altro ricerchi un fondamento se non nel lasciar risuonare i versi, nell’affabularli per un minuto o due sperando che tocchino l’anima di qualche impenitente lettore di poesia. Nonostante tutto, c’è infatti chi ha ancora il gusto di cercare, in questa forma d’arte letteraria, tracce di vita in grado di far senso, di produrre la luce e l’orizzonte più propri in cui poter riconoscere il proprio sguardo.

   L’autore della silloge di poesia di cui ci apprestiamo a parlare è Bonifazio Mattei: un insegnante di lettere in un liceo classico romano, dantista per vocazione ed elezione. In qualità di dantista era solito tenere nelle sere d’estate, almeno fino a qualche tempo fa, delle letture/conferenze a Leonessa, nel reatino, aperte a tutta la cittadinanza interessata.

   Nelle sue poesie si sentono gli echi degli autori a lui più cari: da Giacomo Leopardi a Giovanni Pascoli, da Camillo Sbarbaro a Giorgio Caproni, fino a Jorge Luis Borges o a Eugenio Montale, a Sandro Penna e a Umberto Saba. Dopo alcune poesie apparse in Erba d’Arno e in Poeti e poesia, con L’ultima casa, fa il suo esordio con una silloge nel panorama poetico italiano.

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Dittatori equivoci e torbidi

Curzio Malaparte e la tecnica del colpo di stato

 

   La prima edizione italiana de La tecnica del colpo di Stato è del 1948, ma questo libro di Curzio Malaparte era già uscito a Parigi nel 1931, ovvero nello stesso periodo in cui Hitler stava diventando il protagonista assoluto della politica tedesca ed europea. Secondo Malaparte, tuttavia, Hitler si stava dimostrando non poco esitante nell’intraprendere un vero e proprio colpo di Stato, preferendo piuttosto evitare fino all’ultimo lo scontro finale con il parlamento. Come aveva fatto in precedenza Napoleone, anche lui cercò di arrivare al potere per vie più possibili “legali”.

   La tattica bonapartista aveva in effetti già cercato di “mantenersi a qualunque costo sul terreno della legalità”, senza ricorrere alla violenza più di quanto non fosse strettamente necessario. Catilina era in fondo per Bonaparte un eroe mancato e non poteva costituire per lui un punto di riferimento. La tattica del 18 Brumaio prevedeva fin dall’inizio di realizzare il colpo di Stato sul terreno parlamentare: l'esistenza del parlamento costituiva “la condizione indispensabile del colpo di Stato bonapartista”. Il principio fondamentale che regolava la tattica bonapartista era la necessità di conciliare l'uso della violenza con il rispetto della legalità e per realizzare quest’obiettivo tanto delicato era necessario muoversi “secondo un piano prestabilito fin nei più minuti particolari”, escludendo “in modo assoluto la partecipazione di masse impulsive e incontrollabili a un'azione rivoluzionaria”, che avrebbe rischiato di mettere a repentaglio l’esito della partita.

   L'esistenza di tattiche come quella di Napoleone ha probabilmente generato nelle stesse democrazie parlamentari un’eccessiva fiducia nelle conquiste della libertà, conquiste che in realtà erano fragili nell’Europa napoleonica ed erano destinate a rivelarsi tali anche in seguito. Un simile eccesso di fiducia è secondo Malaparte riconducibile a una certa sottovalutazione dei “catilinari” – come li definisce, ovvero di coloro che sanno come organizzare e realizzare un colpo di Stato – e a un certo disprezzo per i “generali”. Tra questi ultimi, i più pericolosi erano quelli mediocri, come Miguel Primo de Rivera o Iósef Klemens Pilsudzki (considerato da molti il padre della riconquista dell’indipendenza polacca), in quanto militari di secondo ordine la cui reputazione non rischiava di essere compromessa da un eventuale fallimento del loro tentativo di prendere il potere. In genere sono conservatori e reazionari, ma in qualche occasione alcuni di loro, non più legati al potere tradizionale o borghese, sono diventati le menti tattiche e il braccio armato di strategie politiche rivoluzionarie, dimostrando una lucidità e una freddezza sorprendenti in frangenti storici in cui, per diverse ragioni, non era facile conservarle.

   In Russia, per esempio, Trotskij fu il vero artefice della presa del potere da parte dei bolscevichi nel 1917, tanto che secondo Malaparte la rivoluzione di ottobre sarebbe riuscita anche senza Lenin. Trotskij si sarebbe potuto impadronire del potere “anche se Lenin fosse rimasto in Svizzera e non avesse avuto nessuna parte della rivoluzione russa”. Lenin, certo, fu lo stratega della rivoluzione, colui che cercò di fornirle il più possibile una base di massa; ma nel momento decisivo la sua strategia, da sola, senza la tattica del colpo di Stato messa in campo da Troskij, si sarebbe rivelata inadeguata e insufficiente.

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Leggendo Cioran che parla con Dio

 

    Come è capitato a molti santi e mistici, anche il grande scrittore e saggista rumeno Emile Cioran ebbe con Dio un rapporto poco conciliante. Nel suo caso, sia la fede che la sua negazione, sia l’amore per Dio che l’odio per Dio, si fondavano su un rapporto autentico con la sofferenza, un rapporto cioè privo da infingimenti ed esente da strategie consolatorie. Come per Dostoevskij, anche per Cioran la sofferenza è infatti “la causa unica e sola della coscienza”. È solo grazie alla sofferenza che noi possiamo smettere di essere delle marionette, ed è solo grazie ad essa che noi possiamo acquisire la sensazione d’esistere.

Del resto, già prima di Dostoevskij i grandi tragici greci ce lo avevano insegnato: in base alla legge che sta a fondamento della tragedia attica, la legge del to pathei pathos, la conoscenza deriva essenzialmente dal dolore. “Gli uomini – scrive Cioran – si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri”. Giacomo Leopardi, per esempio, lo aveva capito molto bene, come si evince, in particolare, da un verso contenuto ne L’ultimo canto di Saffo, là dov’è scritto che “arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. Solo il dolore, infatti, può essere veramente conosciuto, solo esso non è per noi misterioso e quindi solo seguendo la traccia che lascia nella nostra vita possiamo in qualche modo intravederne un senso.

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Dieci, cento, mille cose buone.

 

Come un’argomentazione faziosa possa conseguire risultati opposti rispetto a quelli che si propone

 

   In un libro uscito pochi mesi fa, un giovane studioso, Francesco Filippi, cerca di dimostrare che l’opinione piuttosto diffusa secondo la quale il fascismo avrebbe “fatto anche cose buone” è falsa. Le argomentazioni che adduce per farlo toccano tutti i punti principali dei pochi meriti solitamente attribuiti al regime fascista. Per quanto tali argomentazioni partano spesso da premesse almeno opinabili, ne riporteremo qui di seguito alcune a titolo di esempio in maniera diffusa e testuale, così da poter far apprezzare il rigore logico delle stesse argomentazioni insieme allo spessore dell’obiettività che le ispira.

   Si potrebbe iniziare la rassegna di alcuni dei punti salienti della trattazione con un tema che viene di solito percepito come “gratificante”: sebbene Filippi ammetta che la tredicesima mensilità, denominata “gratifica natalizia”, sia stata “inserita ufficialmente il 5 agosto 1937 dalla Camera delle Corporazioni fascista all’articolo 13 del contratto collettivo nazionale di lavoro degli impiegati dell’industria”, egli precisa tuttavia che “nessuna altra categoria venne inserita tra quelle meritevoli di un innalzamento del salario a fine anno. Non si trattava infatti di una norma di ampliamento dei diritti dei lavoratori nel loro complesso, ma di un provvedimento ad hoc per una categoria che era bacino di consenso del regime: i cosiddetti colletti bianchi, che formavano la piccola borghesia italiana e che sognavano la sicurezza di un posto fisso che li strappasse alla precarietà; quelli, per intenderci, che cantavano ‘Se potessi avere mille lire al mese’ ”. Quindi, a quanto pare, quella “gratifica natalizia”, poiché riguardava una sola categoria di lavoratori, non può essere considerata una “cosa buona”.

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Verso un nuovo medievo

 Le riflessioni Nikolaj Berdjaev sul destino della democrazia in Russia

 

   “L'individualismo, l'atomizzazione della società, la sfrenata concupiscenza mondana, la sovrappopolazione illimitata e la smodata pletora dei bisogni”: sono questi, secondo Nikolaj Berdiaev, gli ingredienti principali del materialismo economico, per il quale la vita spirituale dell'uomo è un’illusione priva di valore. Il socialismo, d’altro canto, non fa che sviluppare e portare alle estreme conseguenze questa prospettiva materialistica e non rappresenta in fondo che “il trionfo vivo dei suoi principi latenti e la loro piena diffusione”. Esso mutua “dalla società borghese capitalista il suo materialismo, il suo ateismo, i suoi lumi superficiali, la sua ostilità nei confronti dello spirito e di ogni vita spirituale, la sua frenesia di vivere e di godere, la sua lotta per gli interessi egoisti, la sua incapacità di concentrazione interiore”.

   Nicolaj Berdiaev è stato uno dei più brillanti filosofi e critici letterari russo-ucraini del Novecento. In Nuovo Medioevo – il saggio che, uscito nel 1923, gli conferì notorietà internazionale - spiega perché dopo il trionfo di due varianti solo apparentemente opposte dello stesso modello culturale materialistico non possa che profilarsi l’esigenza di un nuovo medioevo, per il quale tornerà ad essere sostanziale ciò che nei tempi moderni viene invece considerato superfluo. In questa nuova epoca della civiltà si potrà infatti tornare “a un tipo religioso più elevato” e a rivalutare la sfera spirituale come l’unica possibilità per opporsi all’attuale decadenza. 

  A uscire da quest’epoca di decadenza il bolscevismo ci ha provato, ma non c’è riuscito, perché partiva dagli stessi presupposti materialisti che intendeva superare. Essendo una “allucinazione dello spirito” poté conquistare il potere perché corrispondeva in quel momento allo stato morale malato del popolo russo, esprimeva “esteriormente la sua crisi morale interna, l'abbandono della fede, la crisi della religione”. Per cercare di far fronte a simili malattie morali la democrazia liberale non poteva essere di alcun aiuto, e nemmeno il socialismo liberale e umanitario. Solo i bolscevichi potevano dar vita a un tipo di regime che fosse espressione del “singolare sentimento di distacco dalle cose terrene” che il popolo russo ha sempre manifestato e che è sconosciuto ai popoli dell'Occidente. Il popolo russo, infatti, “non si è mai sentito legato alle cose della terra, alla proprietà, alla famiglia”, e più in generale non si è mai sentito legato alla nozione stessa di diritto e di cittadinanza. La stessa religione ortodossa ha sempre valorizzato “l'idea del dovere, non l'idea del diritto”. I diritti della borghesia non hanno mai avuto presso il popolo russo una grande rilevanza. 

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Un cuore pieno di simboli... nel diario d'un istante

    È la purezza del dolore che genera la poesia. Nessuna poesia potrebbe aver mai avuto luogo senza l’ombra del dolore necessario a far risuonare l’eco delle sue parole. E la morte, si sa, è maestra nel generare dolore. La principale, e l’ultima, che non lascia spazio a ulteriori infingimenti, non a menzogne o a diatribe.

   La morte è sempre la morte di qualcun altro, come dice Heidegger, e quindi noi siamo condannati a poterne fare esperienza solo per interposta persona, ma in qualche caso la morte di un’altra persona può essere tanto devastante da trasfigurare completamente il senso della nostra presenza del mondo, oppure da renderlo ancor più riconoscibile e nitido, come prima, forse, non era mai stato possibile coglierlo. Nella misura in cui ci siamo rapportati al mondo e agli altri in modo trasparente, l’unica morte che ci è concesso di vivere può purificare e rendere limpido ogni sentimento che durante la vita precedente sia rimasto, anche solo in parte, sospeso o indecifrato.

   Ma la morte è anche apparenza, mancanza di sostanza, non essere per eccellenza. Una metamorfosi sommessa, un dileguarsi nel nulla per farsi eterni, per trovare nel nulla la propria consistenza definitiva. Come scrive Fernando Pessoa in una poesia, è un momentaneo sottrarsi allo sguardo, un divenire invisibili per un tempo imprecisato: “La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio”.

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