L'uomo che scambió sua moglie per un cappello

Oliver Sacks, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi

Sulla scia dell'eminente studioso russo A. R. Luria - autore di alcune opere fondamentali per la neurologia contemporanea quali Le funzioni corticali superiori nell'uomo e Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla  - Oliver Sacks, neurologo newyorkese e scrittore per vocazione, ha raccolto in un volume di brevi racconti le storie inquietanti e spesso amare di alcuni suoi pazienti.

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Un ottimo giorno per non pensare

 

 

 

   L'idea fissa, o due uomini al mare, testo per lo più trascurato dagli stessi studiosi di Paul Valéry, era al contrario considerato dall'autore una delle sue opere più significative. Dopo la pubblicazione presso Adelphi della traduzione dei suoi Cahiers, è stato riproposto dalle stesse edizioni, per l’ultima volta e in seconda ristampa, nel 2008. Come sottolinea nell’introduzione Valerio Magrelli, traduttore e curatore del volume, quest’opera costituisce un succinto repertorio tematico dell'opus postumum di Valéry. Allo stile diaristico o saggistico dei Cahiers, qui si sostituisce però quello dialogico, che i due protagonisti, un letterato e un medico, interpretano con agilità incalzante e laconico eloquio.

 

   Si tratta di una storia di distrazioni, di azioni diversive e meccaniche che sono meri pretesti per ingannare il tempo e privare la res cogitans cartesiana di uno dei suoi due requisiti fondamentali: quello di pensare sempre. Ovvero, si tratta di creare dei vuoti, o delle sospensioni del pensiero. Con l’altro requisito della stessa res cogitans, quello d’essere autocosciente, sembra esserci invece poco da fare, dato che è difficile sbarazzarsene a comando. Ma bando alle ciance: in breve, ecco dunque quanto accade, o anzi non accade, dato che qui gli accadimenti sono privi di rilievo.

 

   In una bella mattina il narratore cammina adagio nel tentativo di rallentare il corso dei propri pensieri. Questi si succedono troppo in fretta e rinunciano a svilupparsi compiutamente, sovrapponendosi e urtandosi con insistente disagio. In prossimità del mare, lungo un molo, il solitario passante decide quindi di combattere la propria angoscia con qualche istinto potente e semplice e mettendosi così a saltare da un masso all'altro impegna la propria coscienza in un'assidua sorveglianza dei propri muscoli, che si slanciano in passaggi sempre più rischiosi. Tuttavia, tra una difficoltà e l’altra, in quel breve lasso di riposo che segue allo sforzo, il narratore percepisce che l'assurdo è sempre in agguato.

 

   Da ogni lieve rilassamento della sua tensione atletica trapela di nuovo il vortice delle congetture interrotte, che risucchiando come un buco nero la coscienza, la incaglia in soffocanti acrobazie spirituali. Forse un pensiero s'interrompe perché, scorgendo in anticipo il proprio esito, ne percepisce la ritorsione prospettica sull'Io, al quale conviene, per non lasciarsi sorprendere in una posizione sgradevole o vacua, mutare repentinamente la propria angolazione. Purtroppo però, man mano che le congetture si affrettano in percorsi sempre più esili, l'Io stesso si fa inconsistente: si rivela, come Valéry lo definisce nei Cahiers, un punto fittizio e un'invenzione enorme. Per fortuna, mentre la concentrazione del narratore sul proprio corpo diviene sempre più fragile e il rumore del mare incombe vittorioso, quasi felice, a scandire il frangersi dei suoi pensieri, il frastornato atleta intellettuale scorge, tra due dadi di cemento, un uomo apparentemente intento a dipingere e/o pescare.

 

   In realtà quell'uomo, un medico, sta solo fingendo di fare entrambe le cose. Perché finge? È un modo come un altro per tentare di non pensare, dato che il fingere di fare qualcosa dovrebbe, nelle sue intenzioni, contribuire a placare il moto perpetuo della sua intelligenza. I due si presentano, e non appena constatano l'affinità delle loro condizioni danno vita ad un dialogo lucido e teso, a tratti euritmico, incrociando le loro riflessioni senza intenzione polemica, attratti entrambi dai riflessi filosofici che osservano sul filo, a volte paradossale, della loro logica. A poco a poco s'intendono alla perfezione e assorbiti dal piacere d'anticiparsi a vicenda, soddisfatti di potersi alternare nella tessitura delle più svariate elucubrazioni, pare che riescano a sciogliere se stessi dal gravoso assemblaggio d'idee e d'associazioni che li pervade. Così, reggendosi reciprocamente la tela su cui tracciano, con poche linee sapienti, una sorta di senso complessivo del nonsenso, a poco a poco anche i loro rispettivi “io”, o almeno i resti di queste enormi invenzioni, sembrano disperdersi nell’aria e trasvolare il mare.

 

Paul Valéry, L’idea fissa, a cura di Valerio Magrelli, Piccola biblioteca Adelphi, 2008, 2ª ediz., pp. 152.

 

 

 

 

Con Beckett nei teatrini del cuore


   Cosa ci fa Samuel Beckett nei teatrini del signor Egli, nei luoghi della sua infanzia, accovacciato tra le betulle della dacia russa dove Egli ha soggiornato nell’età matura? Si potrebbe dire che lo aspetti, in silenzio, senza aspettarsi da parte sua niente, nemmeno un’ombra di senso oltre quello puro del viaggio, di una ridda di luoghi incastonati nella memoria come ninnoli o gioielli.

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L'arte difficile di non sopravvivere

 


   Nel corso della sua vita movimentata Ernest Hemingway subì un numero impressionante d’incidenti e si fracassò molte volte la testa. Dalla bella biografia che Fernanda Pivano ha scritto su di lui veniamo a sapere tra l’altro che l’ultimo incidente lo ebbe quando, quasi sessantenne, tentò di fare un volteggio sopra uno steccato per imitare un amico. Quella volta non si ruppe la testa, ma si lussò il tendine di un calcagno.
  

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Quel che esiste è l'uomo umano: traversia

 

  Rispetto ad altri scrittori dell’America latina decisamente più letti e più famosi, come il brasiliano Jorge Amado o il columbiano Gabriel Garcia Marquez, a Joao Guimaraes Rosa mancano forse i requisiti favorevoli a un successo ampio e rapido. Rispetto al primo non ha per esempio lo stile da sceneggiatore ed il gusto per il giuoco folclorico, rispetto al secondo manca dell’accattivante combinazione di personaggi surreali con le evoluzioni fantastiche della storia. Tuttavia, nonostante l’assenza di tali requisiti, il suo maggiore romanzo, Grande Sertao, ha avuto la prerogativa di dare vita a due schiere di lettori: coloro che lo considerano uno dei più grandi romanzi del nostro secolo e quelli che non hanno superato, nella più ottimistica delle ipotesi, le prime settanta pagine.  

 

   Pur evocando i modelli narrativi tipici dell’epica classica, Grande Sertao rimane infatti – come ebbe a definirlo lo stesso Guimaraes Rosa - un libro “diverso e terribile, consolatore e strano. […] Gli uomini non muoiono, restano incantati”, disse lo stesso Guimaraes Rosa al termine del discorso che lo insediava all’accademia brasiliana delle lettere, poche ore prima della sua morte; e non si trattava di un pensiero solo occasionale: il restare incantati è infatti uno dei temi dominanti di tutta la sua opera, e in particolare di questo romanzo, dove si può rimanere incantati ad ogni riga. Grande Sertao è una storia di briganti, di uomini in guerra, di donne appena intraviste; è la storia di un ex bandito, Riobaldo, raccontata da lui stesso ad un dottore silenzioso in viaggio nel Sertao, che non chiede mai nulla e che nella traduzione italiana è chiamato Vossignoria.

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Un po' di pugni per la causa

Jack London è ormai più noto in Italia come un buon scrittore per ragazzi che come uno dei migliori narratori americani del secolo. Ciò può sorprendere, se si pensa che, intorno agli anni '40-'50, era uno degli scrittori più letti del mondo, molto apprezzato da alcuni grandi autori della Letteratura del Novecento (Hemingway, ad esempio, lo cita tra coloro che lo hanno influenzato di più) e che la sua opera si inserisce nella scia dei grandi classici della narrativa di lingua Inglese, quali Fielding, Twain e Kipling. 

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Musil e le due stupiditá

  

                           
   Oscar Wilde credeva che fosse "l'unico peccato" e Proust pensava di poterla riconoscere dalla forma del naso; per Cechov ne costituiva un segno rivelatore l'essere compresi dal proprio cavallo, mentre secondo Hofmannsthal un'intelligenza troppo acuta era la sua forma più pericolosa.

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Le veglie della ragione

 

   In una conferenza tenuta nel 1860 Ivan Turgenev individuava in Amleto e Don Chisciotte due tipi fondamentali della natura umana, tipi che avrebbero permeato la letteratura russa del suo tempo ricomparendo a più riprese come modelli ideali di tanti personaggi. Amleti “sono gli introversi che tendono a radicalizzare i conflitti morali e a problematizzare il loro rapporto con le convenzioni sociali”; Don Chisciotte “sono coloro che tendono a lasciar correre le proprie azioni sul filo di motivazioni limpide, coraggiose ed ingenue".

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La felicitá secondo Ortega y Gasset

  Ortega y Gasset è un filosofo poco studiato in Italia, ma è stato a lungo uno dei più letti in America. Attivo in Spagna nella prima metà del secolo è un anticipatore di molti temi che poi diverranno dominanti anche nella filosofia “esistenzialista”. È in genere letto e apprezzato più da scrittori e intellettuali che non da filosofi di professione, probabilmente per il suo stile chiaro e poco specialistico. Certo è che in Italia gli vengono dedicati meno cicli di lezioni di quanto le sue opere meriterebbero, anche alla luce del fatto che alcune di esse, come La ribellione delle masse, sono state per decenni degli autentici best-seller in tutto il mondo.

   L'essere umano è secondo Ortega ciò che manca di fronte alla vita, quell'ente particolare che è sempre in debito con la vita. La vita non basta a se stessa e l'essere umano soffre per questo - come scrive Fontenelle - di "una certa difficoltà ad essere". Per lo stesso motivo il pensiero di ogni uomo è essenzialmente rivolto verso l'Altro, verso la sua "circostanza", e l'uomo è sostanzialmente emigrante, in quanto consiste nel suo "non essere ancora". Così come l'amore è in continua gravitazione intorno alla persona amata e l'Eros si nutre d'immaginazione e illusioni, l'uomo è in continua migrazione oltre se stesso.

   L'ammirazione che sa provare per qualcuno o il suo desiderio di conoscenza sono costituenti decisivi del suo sviluppo spirituale perché possono aiutarlo ad orientarsi nella propria circostanza e a fargli individuare la propria peculiare prospettiva sul mondo che lo circonda. La sua condizione è quella d'un "animale ipotetico", originariamente dubbioso e spaesato, ma portato a credere e ad accomodarsi dentro le sue credenze. La sua vita è insicurezza, "preoccupazione" (Ortega preferisce questo termine a quello di "cura", utilizzato da Heidegger per definire un concetto analogo) che si manifesta in un continuo aver qualcosa da fare, e quindi è storia delle sue illusioni e dei suoi naufragi.
  Per l'uomo l'universo è uno spettacolo che manca d'integrità e così il suo pensiero si aggira alla periferia del proprio mondo nel tentativo di poterlo abbracciare con lo sguardo. Appoggiandosi all'orizzonte che può scorgere dal suo peculiare punto di vista, ognuno produce così la sua rappresentazione - a volte mutuata da altre correnti e intese dire, altre volte maturata nella propria solitudine essenziale - attraverso il continuo dialogo con l'Altro, di volta in volta incarnato dagli altri particolari che lo circondano e dai loro particolari punti di vista, dalle tradizioni culturali che ha condiviso o dalla sua idea dell'assoluto, che può in taluni casi coincidere con la sua idea di Dio.

   All'inizio v'è dunque "l'esigenza d'essere" che caratterizza la vita, e d'altra parte la vita è l'unico luogo dove l'universo può riconoscersi: questo è il paradosso fondamentale che la costituisce. L'universo può riconoscersi solo nella vita e questa è essenzialmente "mancanza ad essere", ricerca di un punto di vista organico che le fornisca l'unitarietà e compattezza necessarie per poter trovare la propria felicità, ma sempre al prezzo di un'inquietudine che si rinnova oltre ogni certezza ed all'interno di ogni credenza.

   "La felicità - diceva Mérimée - è come una voglia di dormire". Ortega non è molto d'accordo, a meno che non s'intenda con tale espressione il desiderio di uscire da noi stessi. È infatti solo quando sappiamo lasciarci assorbire da qualche occupazione o interesse, a concentrare la nostra attenzione su qualcosa o qualcuno, che riusciamo a non avvertire ciò che sta all'origine di ogni infelicità, ovvero "lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto (...). Quanto minore è l'estensione delle nostre attività, in misura maggiore saremo spettatori di noi stessi", sospesi a metà strada tra i nostri propositi non realizzati e i nostri tentativi repressi. Per questo possiamo, secondo Ortega, provare invidia per le persone ingenue, "la cui coscienza sembra trasferirsi interamente in ciò che stanno facendo, nel loro lavoro, nel godimento del loro gioco o della loro passione".


      Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità; Sugarco Editore. 

I primi passi della filosofia in Russia

 


  Nel settecento due sovrani, Pietro il grande e Caterina II, determinarono in modi diversi un svolta radicale nella storia russa. Entrambi ruppero l'isolamento che teneva separata la Russia dall'Europa occidentale portandola definitivamente nell'alveo culturale europeo, e se in questo processo il ruolo "illuminista" di Caterina non è stato mai messo in dubbio, oggi si tende a rivalutare anche quello di Pietro il grande.

 

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Il riccio e la volpe davanti ai busti del Pantheon

 


  Gli intrecci e la struttura polifonica dei romanzi del secolo XIX sono sempre più rari e chi adotta ancora oggi tali approcci narrativi riesce a farlo solo al prezzo di riferirsi a contesti familiari o sociali decisamente più angusti rispetto a quelli di allora, e soprattutto difficilmente si azzarda a sfiorare le problematiche di largo respiro che permeavano le vite di quei personaggi.
  

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La bellezza del corpo e i media

 

   Roland Barthes riteneva che la magrezza fosse una metafora dell'intelligenza, qualcosa che non era appesantito da inutili orpelli e non risentiva di quanto si aggirava invano nei meandri della personalità, risultando pertanto un indice di leggerezza e lucidità. La bellezza delle top modell, la perfezione dei corpi ostentati dalla pubblicità, sembrano anch'esse metafore di qualche qualità non meno rilevante: forse l’impressione di padroneggiare il proprio corpo, forse il suo incedere  flessuoso e ammiccante alludono all’ambizione diffusa di trovare un rifugio solido in una bellezza assoluta e oggettiva, in modelli inattaccabili, in fortezze di seduzione virtuale, in tutto ciò che sappia risultare perentoriamente desiderabile, e pertanto anche in grado di volare alto, sopra i patimenti e le sconfitte della vita.

   La bellezza stessa pare infatti, non meno della magrezza o dell'intelligenza, un modello d'indipendenza e autosufficienza, e proprio il vigore con cui ostentazioni di bellezza e magrezza ricorrono in rappresentazioni collettive mette in luce quale sia, per simili modelli, il pericolo maggiore. L'autonomia e gli automatismi, sia intellettuali che sensoriali, rimarcati da alcune tendenze del costume contemporaneo - come ad esempio il sempre più diffuso interesse per il cybersex o la comunicazione sui social - tendono ad utilizzare codici limitati e rassicuranti in cui nulla è più sospeso ad un altro versante e nulla è costretto ad oscillare per l'influenza di qualcosa di essenzialmente eterogeneo.  Il proliferare di tali codici testimonia di un'esigenza di separatezza e riproducibilità, dove la prima pare indispensabile per il buon esito della seconda.

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Che cos'è la vita?

 

 

  Erwin Schrodinger, nato a Vienna nel 1887 e insignito del premio Nobel per la Fisica nel 1933, negli anni quaranta insegnava presso l'Institute for Advanced Studies di Dublino. Elaborando delle lezioni che aveva tenuto al Trinity College, nel 1944 pubblicò un piccolo saggio (in seguito ristampato più volte) dal titolo piuttosto impegnativo: Che cos'è la vita?. A quest'interrogativo Schrodinger cercò di rispondere applicando i principi della fisica quantistica allo studio delle cellule.

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Il sentimento del gelo familiare

 

 

 

   Clarice Lispector, nata in Ucraina nel 1925 da famiglia ebrea russa e trasferitasi con i genitori in Brasile all’età di due anni, nel suo paese adottivo è apprezzata e amata quasi come un “classico”. Dopo aver letto i racconti contenuti in Legami familiari (Feltrinelli, 2006, pp. 121), potrà non risultare per molti un’impressione infondata. La Lispector è infatti una scrittrice priva d’artifici letterariamente innecessari, incapace di lusingare il lettore con trame accattivanti o con suggestioni non funzionali al racconto ed è invece interamente concentrata sui nodi essenziali della propria esperienza e sul loro alone implicitamente metafisico, in grado cioè di portare alla luce un senso dal groviglio di fatti o gesti quotidiani in cui ogni vita è immersa.

 

   Le sue storie, quasi prive d’architettura narrativa e tuttavia svolte secondo fini e segrete geometrie, sono per lo più centrate intorno a un solo personaggio, quasi sempre femminile. La sua prosa, almeno in questi racconti umbratili e seri, non è meno elegante o allusiva di quella della Blixen, mentre le circostanze umane su cui si sofferma sono forse meno rarefatte e caratterizzate da brevi scosse raggelanti, da piccoli colpi di scena che si verificano in modo silenzioso e naturale.

 

  In Amore, uno dei più belli, Ana, una giovane madre, incontra un cieco e in seguito a tale incontro è indotta a riconsiderare il suo amore per la vita, a tratti soffocante o venato di repulsione. Ne L’imitazione della Rosa Laura è incerta se donare a un’amica un mazzo di rose selvatiche – che, con un gesto audace, aveva comprato per sé al mercato - o tentare d’imitarne “l’estrema e perfetta tranquillità”; alla fine, disturbata dalla loro bellezza, per lei troppo rischiosa, si sentirà inadeguata a possederle. In Preziosità, una ragazza di quindici anni, mentre cammina verso la scuola, in un mattino più freddo del solito, con “le labbra chiuse e un portamento fiero” si accorge di due giovani uomini che procedono verso di lei. Nonostante sia consapevole della neces­sità di prevenirli, non per coraggio, ma per una sorta di “vocazione a un destino”, va loro incontro, e assiste senza guardarli al frangersi muto del loro desiderio sul suo corpo impietrito, alla loro paura della sua immobilità. In Buon Compleanno, una vecchia di ottantanove anni, “alta, magra imponente e scura”, mentre presiede al festeggiamento del suo anniversario, reagisce alle sterili cerimonie del suo parentado ottuso sputando sobriamente sul pavimento.

 

  Sia che si tratti di giovani ancora spaesate o di vecchie costernate e attonite, le protagoniste di questi Legami Familiari sembrano tutte inclini a lasciarsi sorprendere dal laccio della meditazione. Attente alle inquietudini più sorde e attratte dalle più esili prove d’amore, s’imbattono nei paradossi dei loro sentimenti e delle loro emozioni con pacato stupore e vi riflettono con tenace insistenza. Con un tono lieve e incalzante la Lispector passa in rassegna gli slanci e il gelo che regolano i loro legami quotidiani e dal suo sguardo penetrante e discreto scaturisce una polifonia di vita minuta in cui è confortante e bello poter riconoscere senza fatica lo scintillio delle tante altre brevi rivelazioni di cui è gremita ogni vita.

 

     

Clarice Lispector, Legami familiari, Feltrinelli, 2006, pp. 121

 

 

 

L'orario dei treni? Un capolavoro

 

   L’opera narrativa di Danilo Kis,  scrittore e saggista jugoslavo,  è strettamente aderente alla tradizione letteraria mitteleuropea. Kafka, Rilke, Walzer, Canetti traspaiono dalle pagine dei suoi romanzi, tra i quali “Giardino, Cenere” (Adelphi, pp. 187)  è forse il più famoso.

   Si tratta di un’opera prevalentemente autobiografica la cui trama non è particolarmente importante: il narratore, Andreas, ricorda i personaggi principali della sua infanzia trascorsa nella provincia jugoslava durante l’ultima guerra: una sorella inquieta, la madre comprensiva e sapiente, e, su tutti,  il padre  periodicamente folle, incombente ed arcano. Il racconto delle gesta inconsulte di tale padre, che probabilmente sarebbe stato accolto da Kafka come una liberazione, è svolto con una cadenza a tratti proustiana,  con un abbandono narrativo degno di Walzer ma senza la gigioneria intellettualistica propria di alcune parti dell’opera di Canetti che pur sembrano aver influenzato l’autore.

 

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Con Jung alla ricerca della terra senza il male

 

 

   Nel 1912 l’etnologo Curt Nimuendaju incontrò sulle spiagge brasiliane i Guaranì, un’antica popolazione ameroinde. I Guaranì si consideravano “gli ultimi uomini” ed erano soliti vagabondare nelle foreste alla ricerca della “terra senza il male”.

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L'attualitá del bello secondo Gadamer

 

   L’estetica divenne una disciplina filosofica relativamente autonoma nel diciottesimo secolo, quando anche altri ambiti d’indagine si resero più liberi da costruzioni metafisiche unitarie ed omnicomprensive. Alexander Baumgarten, che dell’estetica moderna può essere considerato uno dei  fondatori, la definisce come “Ars pulchre cogitandi”, ovvero come l’arte di pensare in modo bello. Dopo di lui, questa disciplina ottenne una defini­tiva consacrazione filosofica con la Critica del giudizio di Kant.

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