La rivoluzione dello sguardo e le impressioni sospese di Giuseppe De Nittis
Giuseppe De Nittis nacque a Barletta nel 1846 e approdò a Parigi nel 1867. Aveva in precedenza abitato a Napoli e abiterà successivamente a Londra, ma nella capitale francese ebbe la sua definitiva consacrazione a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Di tutte le città in cui ebbe occasione di vivere amò particolarmente i cieli: “è attraverso i cieli – diceva – che torno con gli occhi della mente ai luoghi dove ho vissuto: Napoli, Parigi, Londra: li ho amati tutti”.
A Parigi, frequentò circoli letterari ed artistici dove ebbe modo d’incontrare, tra gli altri, Gustave Caillebotte, Édouard Manet, Alexandre Dumas figlio, Edmond de Goncourt, di cui De Nittis e sua moglie Leontine divennero amici. A Parigi conobbe anche, attraverso Edgar Degas, il gruppo di pittori che poi vennero chiamati impressionisti. Fu proprio Degas a invitarlo a partecipare, nel 1874, alla prima mostra degli Indipendants, nello studio del fotografo Nadar.
Degas utilizzò molto la fotografia come fonte d’ispirazione delle sue opere. I pittori di quel tempo non furono infatti immuni al fascino della fotografia e alcuni di loro si sentirono sollecitati a instaurare con questa nuova arte una sorte d’implicita e sommessa competizione. Non lo fu nemmeno De Nittis, che usava le strade in maniera non dissimile da come era solito fare il fotografo Eugène Cuvelier, che si serviva di sentieri e viottoli per dare profondità alle immagini.
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La terra di mezzo della filosofia e la visione dall'alto
Si discute spesso sui rapporti tra la scienza, la religione e la filosofia. All’inizio della sua Storia della filosofia occidentale, il libro che contribuì a fargli vincere il Nobel per la letteratura, Bertrand Russell inquadra il problema in un modo tanto sensato da risultare ancor oggi forse la miglior risposta al problema, almeno tra quelle succinte. La filosofia sarebbe, secondo Russell, una sorta di terra di mezzo tra la religione e la scienza: come la prima affronta problemi concernenti il “senso” della vita e del mondo nel suo complesso; come la seconda non si accontenta però di nutrire una “fede” in questo senso, ma pretende di giustificare razionalmente ciò in cui crede, i propri valori e principi.
A integrazione della tesi di Russell si potrebbe tuttavia aggiungere che il punto di separazione tra filosofo e uomo di scienza è che l'uomo di scienza non si interroga sul senso non perché neghi necessariamente la sua esistenza, ma perché in quanto scienziato gli è indifferente, il che poi non significa necessariamente che gli sia indifferente in assoluto. L'uomo di scienza si interroga sulle possibili simmetrie, per esempio, tra il sasso che cade e la Luna che ruota intorno alla Terra: la questione del senso parrebbe lasciata ai filosofi come una questione immaginaria, o a quegli scienziati che non hanno rinunciato, talora per mero diletto, a misurarsi con questioni filosofiche.
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La sventura e la Grazia

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Come credere in un Dio assente. Saggio su Simone Weil
Dio assente per un certo tempo.
Nessun filosofo può sottrarsi al rischio di rimanere preda dei paradossi che arriva a vedere e pensare, al rischio di esplodere in volo un attimo dopo averli sfiorati con le proprie ali. Come Kierkegaard testimonia – e come Jean Luc Marion sottolinea – “un pensatore senza paradosso è come l’amante senza passione, pura mediocrità”.
Il pensiero di Simone Weil non può che sottrarsi a qualsiasi sospetto in tal senso: la sua idea di Dio propone paradossi incalzanti cui la sua stessa vita rimase a lungo sospesa e il fatto stesso che per lei Dio possa manifestarsi solo tramite la sua assenza risulta fondamentale per poter comprendere il suo rapporto con la fede cristiana.
L’esperienza della «sventura» ha proprio la prerogativa di rendere “Dio assente per un certo tempo”, un tempo in cui, tuttavia, “bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, seppure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora un giorno Dio le si mostrerà e le svelerà la bellezza del mondo, come accade a Giobbe”.
La sventura è per la Weil un dispositivo semplice: raduna tutto il male e lo raccoglie in un unico punto per trasfigurare il dolore di cui un essere umano è capace in una dimensione «impersonale», quella stessa in cui in definitiva si manifesta la grazia. Solo attraverso la sventura Dio può rivelarsi come il riflesso infinito della propria assenza; e amare Dio attraverso l’esperienza della sua assenza costituisce l'unica garanzia che abbiamo per poter coltivare una fede non idolatrica, una fede che sia in grado di trasfigurarsi nella testimonianza diretta e piena della sua presenza.
http://www.asterios.it/catalogo/la-sventura-e-la-grazia
Perché non bisogna votare per il primo partito
(… e come fare per riconoscere i componenti del secondo).
Il primo partito non è mai una realtà monolitica, ma è da sempre composto da diverse correnti. Queste possono dar vita a un partito unico perché, nonostante le loro divergenze superficiali o apparenti, condividono le seguenti caratteristiche: 1) Sono solite autopromuoversi attraverso slogan piuttosto che attraverso argomentazioni; 2) Non sono solite trarre le conseguenze che sarebbe ragionevole aspettarsi dalle loro analisi o proposte né assumere la responsabilità delle proprie affermazioni; 3) Sembrano condividere con Hobbes la convinzione che la democrazia sia essenzialmente un’aristocrazia di oratori e tendono a considerare i cittadini votanti come dei meri strumenti di potere. In altri termini, come degli sciocchi facilmente manipolabili.
Alla luce di queste osservazioni, sarebbe dunque preferibile non votare per il primo partito e scegliere invece di votare per il secondo. Questo, purtroppo, è da sempre minoritario, in quanto composto dall’esiguo numero di persone che quando avanzano delle proposte per risolvere problemi o affrontare situazioni difficili non cercano di nascondere ai cittadini le relative difficoltà, ma anzi le illustrano a dovere mettendole bene in evidenza. Questo secondo partito è composto dunque da persone indipendenti, che amano tenersi alla larga dal primo partito e la cui influenza sul dibattito politico è pressoché irrilevante, in quanto le loro analisi sono scomode e loro proposte impopolari.