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Rieducare e punire

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  Il disegno di legge Zan, che dopo la sua approvazione alla Camera è in attesa di essere discusso al Senato, sta sollevando un dibattito a cui hanno preso parte molte voci autorevoli in materia costituzionale. Per esempio, secondo Giovanni Maria Flick, giudice emerito della suprema corte, di una legge simile non c'è bisogno: la Costituzione infatti già vieta che "il 'sesso' possa costituire una motivazione di diseguaglianza e di diminuzione della pari dignità sociale". Ma non solo: il disegno di legge Zan contiene anche "un errore tecnico grave", in quanto rende più perseguibili alcuni tipi di discriminazioni rispetto ad altre. Si tratta quindi, per Flick, di "una materia che dovrebbe rimanere "nella sfera della libertà dell’individuo", dato che altrimenti "si rischia di dar luogo a una sorta di "io ti tutelo se" che finirebbe, nonostante le buone intenzioni, per comprimere la libertà d'opinione.

    Un'altra critica è stata mossa da Pietro Dubolino, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione, secondo il quale c'è il rischio che ddl Zan produca effetti non dissimili da quelli cui si è già pervenuti "sotto la vigenza dell’attuale art. 604 bis del codice penale (riproduttivo dell’art. 3 della legge n. 654/1975)", dal momento che il timore di essere denunciati potrebbe indurre ad evitare di esprimersi in termini politicamente non corretti. E il venir denunciati per simili motivi non è certo un'eventualità peregrina, visto che Oriana Fallaci venne sottoposta a procedimento penale per aver pubblicamente sostenuto che la religione islamica era incompatibile con i principii della nostra civiltà, come invece dovrebbe essere lecito opinare.  

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Un grido di dolore in mala fede

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   Chi rimane indifferente ogni volta che qualche migrante muore in mare, e in particolare ogni volta che a morire è un bambino, probabilmente non è un essere compiutamente umano. Ma l'indignazione e il grido di dolore che provengono da più parti d'Italia ogni volta che questo accade sembra spesso fondato sulla rimozione di due dettagli significativi: da un lato che muore da vari decenni nel mondo un bambino ogni cinque secondi per le conseguenze della fame, della sete e di malattie curabili, circostanza di cui si sente per verità poco parlare sui media; e dall'altro che i fautori dell'accoglienza, quando erano al governo del paese, avrebbero avuto a loro disposizione uno strumento semplice ed efficace per evitare tragici naufragi, che consisteva nel concedere il visto a tutti quelli che, almeno da certi paesi dell'Africa e dell'Asia, ne avessero fatto richiesta.

   Se fosse stata fatta questa scelta - perfettamente coerente con la convinzione di poter accogliere tutti coloro che, da alcune zone e per varie ragioni, volevano venire in Italia - ciascuno sarebbe potuto arrivare in aereo e in tutta sicurezza spendendo circa un decimo di quanto attualmente spende e senza dover finanziare organizzazioni criminali e mafiose. Poiché questa scelta non è stata fatta, se ne possono ricavare due conclusioni: o quel grido di dolore è un grido ipocrita, cinico e strumentale, che mira solo ad accrescere consensi speculando su tragedie e morti; oppure è un grido d'inetti, che in tutto il tempo in cui hanno governato non sono stati capaci di adottare la misura più elementare per realizzare quanto ritenevano giusto fare. Infatti, non adottando questa misura pur continuando a professare le ragioni dell'accoglienza, da un lato non hanno cessato d'incoraggiare indirettamente i migranti a partire procurando la morte di molti di loro, dall'altro non hanno mai smesso di finanziare indirettamente le organizzazioni criminali e mafiose che con il traffico di migranti si arricchiscono da anni.

  • Accoglienza
  • Immigrazione
  • Ipocrisia

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La "volontà generale" e l'obbligo di essere liberi

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 Jean Jacques Rousseau pensa che con il contratto sociale l’uomo perda "la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che lo tenta e che egli può raggiungere", ma che in cambio guadagni "la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede". Mentre la libertà naturale "ha come limite solo le forze dell’individuo", la libertà civile "è limitata dalla volontà generale", ed è strettamente congiunta alla "libertà morale, che sola rende l’uomo veramente padrone di se stesso", perché l'assecondare gli impulsi che determinano i nostri desideri equivale a una forma di schiavitù, mentre l’obbedienza alla legge che ci si è prescritta ci consente di accedere all'unica forma di libertà di cui possiamo usufruire all'interno di una società.

 

   Ogni cittadino, avendo ottenuto la sua parte, deve infatti per Rousseau rinunciare a vantare altri diritti, il che consente alla volontà generale di "indirizzare le forze dello Stato secondo il fine implicito nella sua istituzione, che è il bene comune". In altre parole, il legame sociale è formato proprio da ciò che c’è di comune tra i diversi interessi dei cittadini e la sovranità su di loro può essere esercitata solo in base alla volontà generale, dato che questa è espressione dello stesso bene comune che ogni sovranità dovrebbe incarnare e rappresentare.

 

   Poiché con il contratto sociale "ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale", ciascun membro di una società è parte di un tutto inscindibile e sovrano. È noto tuttavia che per Rousseau la volontà generale non coincide con la volontà di tutti: mentre la prima "mira unicamente all’interesse comune", la seconda guarda "all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari". Proprio questa differenza introduce la possibilità di un uso illegittimo della stessa volontà generale, ovvero di un uso che è in grado di mettere in pericolo il rispetto di quelle libertà civili che il contratto sociale dovrebbe invece garantire.

  • Libertà
  • Rousseau

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Popper, Croce e le insidie di un paragone ellittico

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    Karl Popper riteneva che le regole fondamentali del metodo scientifico non fossero molto diverse da quelle della democrazia. Così come una teoria scientifica, per poter essere considerata tale, deve essere falsificabile, analogamente in democrazia chi viene eletto dal popolo per governare deve sottoporre il suo operato politico al giudizio del popolo e deve poter essere sostituito qualora il popolo ritenga che abbia governato male. Sia le teorie scientifiche, sia chi è stato eletto dai cittadini a ricoprire qualche carica politica deve sottoporsi alla controprova dell’esperienza e della storia. Così come una teoria che non ammette la possibilità di essere falsificata e non indica in quali circostanze potrebbe esserlo non è scientifica, così una società in cui chi governa non sottopone il proprio operato al giudizio degli elettori, nei tempi e modi previsti dalla legge, non è democratica. 

    Il marxismo è, secondo Popper, un tipico esempio di teoria non scientifica, in quanto non ha mai ammesso di poter essere falsificata dalle circostanze storiche che hanno smentito le sue previsioni. Trattandosi di una teoria imponente, che è riuscita a operare una sintesi poderosa e coerente tra l’idealismo dialettico di Hegel, il materialismo di Feuerbach, il pensiero degli economisti classici e anche un certo alone di scientismo positivista, ha egemonizzato l’ampio e articolato movimento che da ormai oltre mezzo secolo si stava battendo per realizzare una società che fosse più giusta oltre che più libera.

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  • Paragone Ellittico
  • Popper

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Keynes, il leninismo e i destini del capitalismo

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      Bertrand Russell racconta che ogni volta che andava a cena con John Maynard Keynes gli sembrava di essere completamente stupido. Di certo, la conversazione con quello che è considerato da molti il più grande economista del secolo scorso non doveva risultare noiosa o poco interessante, né priva di osservazioni acute e lungimiranti sul presente e sul futuro. Alcune di queste furono raccolte in volume per il lettore italiano già nel 1968, per essere riproposte in una nuova edizione tre anni fa (J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, Il saggiatore, Milano, 1917).

 

   In uno dei brevi articoli contenuti nel volume, che s’intitola Breve sguardo sulla Russia d’oggi, Keynes si sofferma ad analizzare la situazione nella Russia sovietica nel 1925, e cioè un anno dopo la morte di Lenin, quando ancora l’arcipelago Gulag non esisteva. Come altre religioni nuove, secondo Keynes il leninismo “non deriva il suo potere dalla moltitudine, ma da una piccola minoranza di convertiti entusiasti. […]  Come altre religioni nuove, perseguita senza giustizia o pietà chi le resiste attivamente” ed “è privo di scrupoli”, “pervaso da ardore missionario e da ambizioni ecumeniche”. In fin dei conti, tuttavia, l’affermare che “il leninismo è la fede di una minoranza di fanatici che perseguitano e fanno proseliti, guidati da ipocriti, significa dire, né più né meno, che è una religione, e non soltanto un partito, e che Lenin è un Maometto e non un Bismarck”.

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Lord Byron, un antiromantico travolto dal romanticismo (parte II)

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di Claudia Cardella (continua)

 

Un altro elemento che senza dubbio fa di Byron un romantico un po’ insolito, dopo l’ammirazione per Pope e la sua parzialità per il genere satirico, è la particolare importanza che egli dà al realismo, inteso sia come verosimiglianza delle descrizioni di luoghi e di aspetti di un determinato ambiente, sia come aderenza alla realtà, ai fatti e alle esperienze vissute. È stato fatto notare da Diego Saglia che, nell’introduzione che Byron fa della “oriental tale” The Bride of Abydos, con tutte quelle “immagini ricche di colori, suoni e profumi”, il poeta esibisce con noncuranza alcuni aspetti di un oriente già noto ai lettori inglesi.1 Byron effettivamente sfruttava immagini ed elementi che facevano parte di un immaginario comune, o quantomeno che erano noti, come nel caso dei racconti orientali, dove si ritrovano, per l’appunto, elementi che già venivano associati all’immagine idealizzata dell’Oriente. Tuttavia, non bisogna dimenticare che lo stesso, attraverso, ad esempio, questo elenco che troviamo nei primi versi di The Bride of Abydos, i cui elementi non s’immaginano in un paesaggio concreto, ma creano piuttosto un’atmosfera, sta richiamando fantasmi di luoghi e di cose che egli aveva visto personalmente. Dopotutto, la sua conoscenza diretta dei luoghi e delle cose di cui parlava era ciò che lo distingueva da altri autori che descrivevano l’oriente, ed era anche ciò che lo rendeva particolarmente orgoglioso, se non presuntuoso, dal momento che egli dava una certa importanza a questo fatto.

 

Byron, infatti, non solo considerava importante una certa aderenza alla verosimiglianza, la menzione della quale, a chi ha familiarità con l’aneddotica byroniana, non può non ricordare la sprezzante osservazione sul “western sky” con la sua peculiare “tint of yellow green” di Coleridge.2 Nella prefazione ai primi due canti di Childe Harold, egli introduce il discorso dicendo che il poema è stato composto mentre l’autore si trovava in buona parte dei luoghi che vi vengono descritti, e che le parti relative alla Spagna e al Portogallo sono basate su delle osservazioni fatte personalmente da lui stesso. Dopodiché spiega: “Thus much it may be necessary to state for the correctness of the descriptions”.3 Una tale attenzione al realismo, nonché una prefazione in cui si intende sottolineare come l’elemento più importante del poema sia non la storia, bensì i luoghi in cui il pellegrino fittizio si sofferma, difficilmente si possono ricondurre all’orrore di Byron per le critiche, che pure dà quel tono particolare, tra l’arrogante e il seccato, a molti suoi scritti introduttivi. Ad aumentare l’impressione che si tratti di una reale puntigliosità di Byron vengono anche le note e le parti in prosa relative ai due canti del poema, le quali sono copiose e riportano diverse osservazioni di carattere descrittivo, folkloristico, storico, cronachistico e di altro genere.

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