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Leggendo Cioran che parla con Dio

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    Come è capitato a molti santi e mistici, anche il grande scrittore e saggista rumeno Emile Cioran ebbe con Dio un rapporto poco conciliante. Nel suo caso, sia la fede che la sua negazione, sia l’amore per Dio che l’odio per Dio, si fondavano su un rapporto autentico con la sofferenza, un rapporto cioè privo da infingimenti ed esente da strategie consolatorie. Come per Dostoevskij, anche per Cioran la sofferenza è infatti “la causa unica e sola della coscienza”. È solo grazie alla sofferenza che noi possiamo smettere di essere delle marionette, ed è solo grazie ad essa che noi possiamo acquisire la sensazione d’esistere.

Del resto, già prima di Dostoevskij i grandi tragici greci ce lo avevano insegnato: in base alla legge che sta a fondamento della tragedia attica, la legge del to pathei pathos, la conoscenza deriva essenzialmente dal dolore. “Gli uomini – scrive Cioran – si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri”. Giacomo Leopardi, per esempio, lo aveva capito molto bene, come si evince, in particolare, da un verso contenuto ne L’ultimo canto di Saffo, là dov’è scritto che “arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. Solo il dolore, infatti, può essere veramente conosciuto, solo esso non è per noi misterioso e quindi solo seguendo la traccia che lascia nella nostra vita possiamo in qualche modo intravederne un senso.

  • Emile Cioran

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Verso un nuovo medievo

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 Le riflessioni Nikolaj Berdjaev sul destino della democrazia in Russia

 

   “L'individualismo, l'atomizzazione della società, la sfrenata concupiscenza mondana, la sovrappopolazione illimitata e la smodata pletora dei bisogni”: sono questi, secondo Nikolaj Berdiaev, gli ingredienti principali del materialismo economico, per il quale la vita spirituale dell'uomo è un’illusione priva di valore. Il socialismo, d’altro canto, non fa che sviluppare e portare alle estreme conseguenze questa prospettiva materialistica e non rappresenta in fondo che “il trionfo vivo dei suoi principi latenti e la loro piena diffusione”. Esso mutua “dalla società borghese capitalista il suo materialismo, il suo ateismo, i suoi lumi superficiali, la sua ostilità nei confronti dello spirito e di ogni vita spirituale, la sua frenesia di vivere e di godere, la sua lotta per gli interessi egoisti, la sua incapacità di concentrazione interiore”.

   Nicolaj Berdiaev è stato uno dei più brillanti filosofi e critici letterari russo-ucraini del Novecento. In Nuovo Medioevo – il saggio che, uscito nel 1923, gli conferì notorietà internazionale - spiega perché dopo il trionfo di due varianti solo apparentemente opposte dello stesso modello culturale materialistico non possa che profilarsi l’esigenza di un nuovo medioevo, per il quale tornerà ad essere sostanziale ciò che nei tempi moderni viene invece considerato superfluo. In questa nuova epoca della civiltà si potrà infatti tornare “a un tipo religioso più elevato” e a rivalutare la sfera spirituale come l’unica possibilità per opporsi all’attuale decadenza. 

  A uscire da quest’epoca di decadenza il bolscevismo ci ha provato, ma non c’è riuscito, perché partiva dagli stessi presupposti materialisti che intendeva superare. Essendo una “allucinazione dello spirito” poté conquistare il potere perché corrispondeva in quel momento allo stato morale malato del popolo russo, esprimeva “esteriormente la sua crisi morale interna, l'abbandono della fede, la crisi della religione”. Per cercare di far fronte a simili malattie morali la democrazia liberale non poteva essere di alcun aiuto, e nemmeno il socialismo liberale e umanitario. Solo i bolscevichi potevano dar vita a un tipo di regime che fosse espressione del “singolare sentimento di distacco dalle cose terrene” che il popolo russo ha sempre manifestato e che è sconosciuto ai popoli dell'Occidente. Il popolo russo, infatti, “non si è mai sentito legato alle cose della terra, alla proprietà, alla famiglia”, e più in generale non si è mai sentito legato alla nozione stessa di diritto e di cittadinanza. La stessa religione ortodossa ha sempre valorizzato “l'idea del dovere, non l'idea del diritto”. I diritti della borghesia non hanno mai avuto presso il popolo russo una grande rilevanza. 

  • Nikolaj Berdjaev

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Un cuore pieno di simboli... nel diario d'un istante

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    È la purezza del dolore che genera la poesia. Nessuna poesia potrebbe aver mai avuto luogo senza l’ombra del dolore necessario a far risuonare l’eco delle sue parole. E la morte, si sa, è maestra nel generare dolore. La principale, e l’ultima, che non lascia spazio a ulteriori infingimenti, non a menzogne o a diatribe.

   La morte è sempre la morte di qualcun altro, come dice Heidegger, e quindi noi siamo condannati a poterne fare esperienza solo per interposta persona, ma in qualche caso la morte di un’altra persona può essere tanto devastante da trasfigurare completamente il senso della nostra presenza del mondo, oppure da renderlo ancor più riconoscibile e nitido, come prima, forse, non era mai stato possibile coglierlo. Nella misura in cui ci siamo rapportati al mondo e agli altri in modo trasparente, l’unica morte che ci è concesso di vivere può purificare e rendere limpido ogni sentimento che durante la vita precedente sia rimasto, anche solo in parte, sospeso o indecifrato.

   Ma la morte è anche apparenza, mancanza di sostanza, non essere per eccellenza. Una metamorfosi sommessa, un dileguarsi nel nulla per farsi eterni, per trovare nel nulla la propria consistenza definitiva. Come scrive Fernando Pessoa in una poesia, è un momentaneo sottrarsi allo sguardo, un divenire invisibili per un tempo imprecisato: “La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio”.

  • Carlo Lapucci

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La scuola e l'educazione alla saggezza di vivere

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   Suonano ancora oggi attuali le parole di Guido Calogero sulle finalità della scuola e dell’educazione: “Proprio in quanto il tempo in cui semplicemente si vivrà sarà più lungo del tempo in cui si produrrà, l’educazione alla saggezza del vivere dovrà prevalere sempre più rispetto all’addestramento alla tecnica del produrre”. La scuola sembra essersi dimenticata del significato di quest’indicazione preziosa e proprio mentre si preoccupa sempre più di formare nuovi tecnici pronti a inserirsi nel mondo del lavoro, dà sempre più importanza a delle nozioni formali e sempre meno ad aspetti sostanziali per un’ipotetica educazione alla “saggezza di vivere”.

   Questo fenomeno appare particolarmente evidente se ci si sofferma su come viene insegnata la letteratura. Oggi si tende infatti a dare “un po’ troppa importanza alla forma dei testi che si leggono – a pezzettini – e un po’ troppo poca al loro contenuto”. Questa sproporzione dipende - secondo Claudio Giunta, docente di letteratura italiana all’università di Trento e uno dei massimi studiosi di scuola e di didattica oggi in Italia - “da due ragioni principali. Da una parte, nel corso dei decenni ha finito per depositarsi nelle scuole una versione estremizzata di quella che possiamo chiamare l’idea universitaria di letteratura: l’idea cioè che la letteratura sia un ‘problema’ (il problema dei «Canti» di Leopardi, le problematiche del Decadentismo eccetera), e che questo problema vada risolto come si risolvono i problemi: attraverso l’analisi (dei Canti di Leopardi, delle poesie di D’Annunzio)”.

   A poco a poco, cioè, si è diffusa l’idea che sia possibile decifrare lo specifico letterario solo utilizzando metodi che consentano di decodificare le opere, liberandole così dal rischio di poter essere lette in maniera ingenua. L’ingenuità è infatti, secondo quest’approccio accademico, ovvero per l’idea universitaria di letteratura, “il più grave dei peccati”. Al posto di pericolose e fuorvianti letture ingenue certa cultura universitaria, almeno fino a non molto tempo fa, metteva di solito “dei protocolli, delle procedure d’analisi”, e soprattutto “un metalinguaggio, un gergo adatto a dar conto della corretta applicazione di queste procedure d’analisi. Appropriatosi del gergo, applicati correttamente i metodi (detti anche ‘metodologie’)”, lo studente poteva ritenere d’aver “risolto il problema della letteratura”.

   Ora, quest’impostazione critica, che è nata qualche decennio fa nelle università, costituisce lì sempre meno un riferimento indispensabile. Oggi chi si occupa di letteratura a livello universitario sa ormai fare a meno di grafici e freccine, così come “non si mette a glossare in classe la teoria delle funzioni del linguaggio di Jakobson o la semantica strutturale di Greimas, e nemmeno l’avviamento all’analisi del testo letterario di Segre.” Tuttavia, e qui sta l’aspetto più paradossale, pare che proprio “questa idea universitaria della letteratura, che l’università nel frattempo ha lasciato cadere, abbia ancora un’influenza cospicua sul modo in cui si studia la letteratura nelle scuole”.

  • Claudio Giunta
  • Educazione
  • Guido Calogero

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Thomas Mann e i moderati nell'era della tecnica

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   Tre anni prima del suo rientro definitivo in Germania dagli Stati Uniti, nel 1950, Thomas Mann tenne a Chicago una conferenza con un titolo semplice ed emblematico: Il mio tempo. La traduzione italiana della conferenza, di Ervino Pocar, è contenuta in un volume della vecchia Medusa mondadoriana nel contesto di una silloge per la cui composizione lo stesso Mann ebbe occasione di compiacersi con l’editore italiano (T. Mann, Il mio tempo, in Romanzo di un romanzo, trad. it. Mondadori, 1952, pp. 241-265).

   Il tempo in cui il grande scrittore tedesco si trovò a vivere, e di cui parlò in quella conferenza, è ancora quello dell’epoca che Goethe aveva già contrassegnato come l’era delle “facilità”, e che Mann assimila all’ “epoca della tecnica, del progresso e delle masse, quell’epoca che dopo una corsa di 120 anni è giunta in questi giorni angosciati a toccare la vetta vertiginosa e veramente fantastica” (ivi, p. 243).

   La vetta cui Thomas Mann si riferisce è quella caratterizzata dal secondo conflitto mondiale, dall’olocausto e dall’incipiente guerra fredda, ma anche dal rapido diffondersi di quelle “mode” e correnti culturali che lui non seguì mai: “quando il mio pensiero ritorna al passato… – scrive infatti – ecco, io non ho mai seguito la moda, non ho mai portato il macabro martello dell’Arlecchino fin de siécle, mai avuto l’ambizione di essere all’avanguardia letteraria, mai appartenuto a una scuola o alla consorteria che era di volta in volta al comando, né al naturalismo, né al neo-romanticismo, al neo-classicismo, al simbolismo, all’espressionismo, e chi più ne ha più ne metta. Perciò non fui mai sostenuto da nessuna scuola e raramente lodato dai letterati (ivi, p. 251)”.

  • Lukacs
  • Scalfari
  • Thomas Mann

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La rivoluzione dello sguardo e le impressioni sospese di Giuseppe De Nittis

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   Giuseppe De Nittis nacque a Barletta nel 1846 e approdò a Parigi nel 1867. Aveva in precedenza abitato a Napoli e abiterà successivamente a Londra, ma nella capitale francese ebbe la sua definitiva consacrazione a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Di tutte le città in cui ebbe occasione di vivere amò particolarmente i cieli: “è attraverso i cieli – diceva – che torno con gli occhi della mente ai luoghi dove ho vissuto: Napoli, Parigi, Londra: li ho amati tutti”.
   A Parigi, frequentò circoli letterari ed artistici dove ebbe modo d’incontrare, tra gli altri, Gustave Caillebotte, Édouard Manet, Alexandre Dumas figlio, Edmond de Goncourt, di cui De Nittis e sua moglie Leontine divennero amici. A Parigi conobbe anche, attraverso Edgar Degas, il gruppo di pittori che poi vennero chiamati impressionisti. Fu proprio Degas a invitarlo a partecipare, nel 1874, alla prima mostra degli Indipendants, nello studio del fotografo Nadar.
   Degas utilizzò molto la fotografia come fonte d’ispirazione delle sue opere. I pittori di quel tempo non furono infatti immuni al fascino della fotografia e alcuni di loro si sentirono sollecitati a instaurare con questa nuova arte una sorte d’implicita e sommessa competizione. Non lo fu nemmeno De Nittis, che usava le strade in maniera non dissimile da come era solito fare il fotografo Eugène Cuvelier, che si serviva di sentieri e viottoli per dare profondità alle immagini.

  • De Nittis
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