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Il Marx di Isaiah Berlin

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    Uno dei massimi intellettuali e saggisti d'area liberale del Novecento, Isaiah Berlin, in un libro ormai classico pubblicato per la prima volta nel 1939 e uscito quest'anno in traduzione italiana per Adelphi a cura di Henry Hardy, definisce Karl Marx come "il vero padre della storiografia economica moderna e forse anche della sociologia moderna", almeno "nella misura in cui è possibile attribuire questo titolo a un'unica persona".

    Tutta l'imponente e geniale architettura filosofica costruita da Marx potrebbe aver preso le mosse da un'idea enunciata in un verso di Rassegnazione da Friedrich Schiller: "la storia del mondo è la giustizia del mondo". Sul fatto che la storia proceda sempre verso una maggiore razionalizzazione della realtà lo storicismo hegeliano e quello di Marx secondo Berlin concordano: "la scissione nacque al momento di stabilire quale peso dovesse essere attribuito ai termini cruciali razionale e reale".

    Com'è noto, uno dei motivi di discussione tra destra e sinistra hegeliana verte proprio sul diverso peso da attribuire alle due parti di una celebre formula di Hegel: "il reale è razionale e il razionale è reale". Mentre la destra tendeva a sottolineare la prima parte dell'affermazione, la sinistra metteva in risalto la seconda. La storia, in questa prospettiva, non poteva che consistere nella progressiva razionalizzazione della realtà, e cioè non poteva che progredire verso il superamento, in senso hegeliano, delle sue contraddizioni, e quindi, per Marx, del fatto che mentre la produzione, dopo la prima rivoluzione industriale, era diventata collettiva, la proprietà dei mezzi di produzione era rimasta in mani private. La Storia avrebbe provveduto a superare una tale contraddizione facendo in modo che i capitali si accumulassero nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone, mentre un numero sempre maggiore sarebbe diventato sempre più povero. Una volta che fosse giunta a completa maturazione la contraddizione strutturale di partenza si sarebbe instaurata, in una prima fase, la dittatura del proletariato e poi il comunismo vero e proprio, ovvero la società senza classi.

  • Isaiah Berlin
  • Kal Marx

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Umberto Eco e il fascismo eterno

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    Quando Franklin Delano Roosevelt sosteneva che la vittoria del popolo americano e dei suoi alleati sarebbe stata "una vittoria contro il fascismo e il vicolo cieco del dispotismo che esso rappresenta” era il 23 settembre 1944 e la seconda guerra mondiale non era ancora conclusa. Il dispotismo cui faceva riferimento Roosvelt si era rivelato un sistema efficace per colmare il vuoto di potere emerso in Italia al termine del primo conflitto mondiale, ma per riuscire a insinuarsi nella crisi dello Stato liberale era stato necessario ricorrere a una notevole dose di retorica e di populismo.

    In occasione della conferenza in lingua inglese che tenne alla Columbia University il 25 Aprile 1995, da cui venne poi tratto in traduzione italiana Il fascismo eterno, Umberto Eco fornì una spiegazione illuminante del rapido successo di Mussolini e del tipo nuovo di dispotismo da lui ideato: il leader del fascismo riuscì a cavalcare quella crisi perché "non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica", tant'è che "cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti".

    Sebbene sia stato un movimento politico essenzialmente retorico, privo di un'analisi teorica propria della società e tutt'al più in grado di dar vita a una sintesi opportunistica e precaria tra diverse visioni del mondo, il fascismo fu anche "il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace". Proprio questa sua consistenza retorica permise a Mussolini d'incunearsi nel tessuto politico italiano raccogliendo consensi in modo trasversale e fornendo l'impressione di poter operare una sintesi tra diverse istanze ideologiche.

  • Fascismo
  • Unmberto Eco

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Don Abbondio, Don Quijote e il sentimento del contrario

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    L'arte non può nascere da una aggregazione di elementi, da una somma o da una combinazione razionale di fattori. Secondo Pirandello "la creazione dell'arte è spontanea: non è composizione esteriore, per addizione d'elementi di cui si siano studiati i rapporti: di membra sparse non si compone un corpo vivo, innestando, combinando. Un'opera d'arte, insomma, è, in quanto è <<ingenua>>; non può essere il risultato della riflessione cosciente".

    Anche per Pirandello, come già per Leopardi, una certa ingenuità riesce a operare sintesi, a sciogliere contrasti: essa sa far nascere, oltre che talora il pianto, anche un sorriso spontaneo e naturale. Un sorriso più interiore che esteriore, e per questo luminoso e franco, a volte appena accennato, che allude a tutto un retrogusto della vita che è fatta appunto di contrasti, di scintille e mediazioni, di opposizioni che si sciolgono in nuova confidenza e fiducia.

    L'umorismo porta alla luce secondo Pirandello l'esperienza di un tale contrasto, dell'opposizione latente tra discorso cosciente e lo sviluppo del suo complemento, e cioè di quel "sentimento del contrario" che si profila in maniera spesso silenziosa sul fondo della coscienza. Nel suo saggio sull'umorismo Pirandello scrive infatti: "Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nell'umorista si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene infine ad assumere lo stesso valore del sì. Magari può fingere talvolta l'umorista di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli parla l'altro sentimento che pare non abbia il coraggio di rivelarsi in prima; gli parla e comincia a muovere ora una timida scusa, ora un'attenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora un'arguta riflessione che ne smonta la serietà e induce a ridere. Così avviene che noi tutti dovremmo provar disprezzo e indignazione per Don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e spesso un matto da legare Don Quijote; eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia per quello, e ad ammirar con infinita tenerezza le ridicolaggini di questo, nobilitate da un ideale così alto e puro".

  • Pirandello
  • Umorismo

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Kant, Leopardi e la prefigurazione di un limite

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   Nel suo Kant e Leopardi, Loretta Marcon riporta in maniera abbastanza estesa un bel ritratto che Ehregott Andreas Christoph Wasianski fa di Immanuel Kant: "Non diceva male di nessuno. Scansava i discorsi intorno ai brutti vizi dell'uomo, come se la menzione di cattive azioni offendesse la decenza nelle conversazioni della gente onesta […]. Rendeva giustizia a ogni merito e cercava di procurare un'occupazione a persone benemerite, a loro insaputa. Non un'ombra di rivalità in lui e, meno ancora, di gelosia di mestiere. Faceva del suo meglio per aiutare il principiante e agevolargli la buona riuscita.  Dei colleghi parlava con il massimo rispetto […]. Invitava alla mensa molti colleghi e sapeva valutare degnamente i pregi di ciascuno. Per questa universale benevolenza verso gli uomini era incapace di pensare o parlare con disprezzo di qualche condizione umana; il suo disprezzo colpiva gli indegni individui di qualsiasi condizione, ma raramente lo esprimeva ad alta voce. […] Alla cordiale tenerezza di Kant era unita la più salda fermezza di carattere. Quando dava la sua parola, incrollabile com'era, essa valeva più dei giuramenti di altri".

    Nel saggio della Marcon questi tratti del carattere del grande filosofo tedesco sono accostati ad altri tratti, per certi versi con questi sintonici, della personalità di Giacomo Leopardi, che secondo Giuseppe Rensi, oltre ad essere il maggior poeta italiano dell'Ottocento, fu in quel secolo anche il nostro filosofo più rilevante e originale.

    Leopardi probabilmente conosceva la Critica della Ragion pura di Kant nella traduzione italiana del Mantovani, ma le maggiori affinità tra i due non emergono tanto nell'ambito teoretico, quanto piuttosto sotto il profilo morale, dato che entrambi attribuivano agli aspetti etici dell'esistenza un rilievo fondamentale all'interno delle rispettive concezioni della vita. Secondo Francesco Moroncini, per esempio, l'etica leopardiana, pur non appoggiandosi ad alcuna religione positiva, "è però altamente umana, e non punto lontana dalla morale evangelica", e Walter Binni considerava Leopardi "la più grande coscienza morale del nostro 800".

  • Kant
  • Leopardi

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Un'intervista al Principe di Salina sull'Italia di oggi

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I: La ringrazio ancora, Don Fabrizio, per avermi concesso quest'intervista, che inizio col porle una domanda che ho in serbo da tempo: lei ha affermato, all'interno dell'opera del suo discendente che l'ha fatta conoscere al grande pubblico, che i siciliani non vogliono cambiare, non vogliono migliorare, perché in fondo presumono di essere perfetti, perché la loro vanità, ma anche il loro desiderio d'oblio, gli impediscono di desiderare o auspicare qualsiasi mutamento. Ritiene quindi che i problemi fondamentali della Sicilia, ma anche dell'Italia, visto che si tratta in buona parte degli stessi, siano problemi insolubili?

 

Principe: A quali problemi si riferisce?

 

I: Mi riferisco per esempio alle ampie sacche d'inefficienza e corruzione, alla burocrazia ipertrofica che le alimenta, ai molti giovani che anche per queste ragioni sono indotti a emigrare e al fatto che, nonostante alcuni successi nella lotta alla criminalità organizzata, le mafie continuano a prosperare come prima e più di prima.

 

Principe: Come ebbi già a dire al cavalier Chevalley, alla cui cortese offerta di un posto nel Senato del nuovo regno replicai illustrandogli le ragioni della mia disillusione, secondo me ormai è tardi per cambiare. Una volta che si è formata la crosta viene meno ogni reale intenzione di cambiamento. Per questo i giovani farebbero bene ad andarsene prima. Vede, nessun problema del genere è insolubile, ma tutti lo sono quando non si ha alcuna intenzione di affrontarli e risolverli. Prenda per esempio il problema della criminalità organizzata, visto che vi ha fatto cenno con la sua domanda: ma lei pensa veramente che se uno Stato moderno volesse realmente combatterla ed eliminarla in oltre un secolo non ci sarebbe riuscito?

 

Intervistatore (I): Non saprei, secondo lei?

 

Principe: Nessun Stato moderno discretamente efficiente e realmente democratico è impotente verso le mafie: può trovarsi a gestire con qualche difficoltà questi fenomeni per qualche periodo di tempo, ma poi ne viene a capo. Diverso è il caso quando la criminalità organizzata ha avuto modo di diventare per fatturato di gran lunga la prima azienda di un paese. Quale Stato potrebbe mai avere interesse a smantellare un'impresa simile? Quale potrebbe trovare la forza e la determinazione per farlo? Ha idea del contraccolpo economico, e dunque anche politico, che una simile operazione comporterebbe?

 

I: Immagino un notevole danno economico, e di riflesso magari anche politico. In effetti la criminalità organizzata è di gran lunga la prima azienda italiana. Se non ricordo male la sola Ndrangheta è la quarta organizzazione di stampo mafioso nel mondo, con circa settanta miliardi di fatturato.

  • Il Gattopardo
  • Italia
  • Mafia
  • Tomasi Lampedusa

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Hegel precursore di Einstein

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     Il primo postulato su cui si basa la teoria della relatività ristretta stabilisce che le leggi della natura sono uguali in qualsiasi sistema di riferimento inerziale. Il secondo postulato su cui si fonda tale teoria è invece quello che asserisce la non superabilità, o l'assolutezza, della velocità della luce. Questo secondo postulato aveva avuto già qualche illustre anticipazione filosofica circa un secolo prima di Albert Einstein. Ne L'enciclopedia delle scienze filosofiche, infatti, Hegel aveva definito quella della luce come una velocità assoluta, in quanto velocità di un corpo "assolutamente leggiero", cioè privo di massa inerziale.

    Ma procediamo con ordine. Per Einstein la velocità della luce è finita, ma poiché è la velocità massima possibile, si comporta come una velocità infinita. Questo implica che non è più valida la legge della trasformazione classica, galileiana, e che diventa valida la legge della trasformazione di Lorentz. Infatti, come sostengono Einstein e Infeld (L’evoluzione della fisica, Torino, 1965, p. 200) “il numero esprimente la velocità della luce figura esplicitamente nella trasformazione di Lorentz, e vi assume la veste di caso limite, come la velocità infinita nella meccanica classica”.

  • Einstein
  • Hegel

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