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Leibniz, Kant e il rapporto della filosofia con le scienze secondo Ernst Cassirer

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   Sigmund Freud sostiene che Leibniz sia stato l’ultimo uomo ad aver saputo tutto. Dopo di lui, già con l’Enciclopedia divenne chiaro che lo scibile umano non potesse più essere padroneggiato da una mente sola. La filosofia, che fino a quel momento era stata una sorta di coordinatrice generale di tutte le attività di ricerca nei campi più disparati, perse questa funzione. La “vecchia metafisica” – come la chiama Hegel – che aveva svolto quella funzione più di ogni altra sua componente e che per Cartesio ne costituiva il fusto centrale, venne da Kant relegata nell’alveo delle attività pseudoscientifiche, buona tutt’al più a mostrare l’aspirazione legittima e profonda dell’anima umana a conseguire un sapere assoluto e incondizionato. Da questo punto in poi, il rapporto tra la filosofia e le scienze particolari sarà sempre più problematico e incerto.

   Con Kant, la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia: se infatti una volta si poteva eventualmente “convenire con l’orgogliosa pretesa della facoltà teologica di considerare quella filosofica la sua ancella”, dopo Kant è rimasta aperta la questione se “l’ancella precedesse la sua graziosa signora con la fiaccola o le reggesse lo strascico”. Ma nel secolo dei lumi, secondo Ernst Cassirer, non solo la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia, ma si trova anche a dover ripensare radicalmente le proprie relazioni con le altre scienze particolari.

  Tali relazioni costituiscono il filo rosso che lega insieme i quattro saggi brevi di Ernst Cassirer raccolti nel volume che qui presentiamo (Ernst Cassirer, Kant e la biologia moderna e altri scritti, a cura di Riccardo De Biase, Marchese editore, Grumo Nevano (Na), 2014). Esse risultano, dopo Kant, sempre più precarie, in quanto pare sempre più incrinarsi la fiducia nella possibilità di una connessione sistematica del sapere e nell’esistenza di uno spazio intellettuale omogeneo. Mentre nei sistemi del razionalismo classico, per esempio, “la filosofia appariva come la portatrice della fiaccola della scienza, le mostrava i fini e le batteva le vie. Al contrario, nell’interpretazione del positivismo, veniva sempre più sospinta al rango di semplice seguace, seguiva la scienza come ‘lo spigolatore segue il mietitore’. Ma, in linea di principio, è possibile – e questa è secondo Cassirer la vera svolta post-kantiana – anche un terzo tipo di rapporto. La filosofia odierna non può tornare indietro a quell’ideale di ‘dottrina della scienza’, come aveva indicato ancora Fichte nel suo scritto Sul concetto di dottrina della scienza; non può mostrare un sommo, incondizionatamente certo principio metafisico per ricavare da questo, facendone discendere deduttivamente secondo forma e contenuto, il tutto del sapere. E tanto meno può essere compito della filosofia tentare di pacificare le lotte interne che sempre di nuovo si aprono e si mostrano nelle scienze, per portarvi pace attraverso rapide soluzioni. Essa, piuttosto, sta nel mezzo di queste lotte, non potrà né vorrà altro che stare in mezzo a loro in quanto co-disputatrice. Invece di superare le opposte posizioni mediante un’affermazione di potenza del pensiero, o di fare il tentativo di conciliarle mediante qualche semplice compromesso, la filosofia deve, piuttosto, renderle trasparenti in tutta la loro serietà e in tutto il loro peso” (ivi, pp. 39-40).

  • Cassirer
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Piero Martinetti, Simone Weil e l'attualità del marcionismo

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     Piero Martinetti e Simone Weil sono morti entrambi nel 1943 e si può presumere che ignorassero reciprocamente le loro opere. Ebbero entrambi atteggiamenti pubblici intransigenti verso il fascismo e il nazismo: la Weil tornò appositamente in Europa dagli Stati Uniti per combattere Hitler e Martinetti fu l’unico filosofo tra la dozzina di professori che su 1200 accademici italiani si rifiutò di prestare giuramento al regime. Inoltre, entrambi mostrarono qualche simpatia per il marcionismo.  

    Marcione di Sinope fu un eretico della metà del secondo secolo che considerava il Vecchio Testamento come il prodotto di un Dio che aveva tutti i pregi e i difetti dell’umanità e la cui legge risultava da una miscellanea di giustizia e di arbitrio, di amore e odio. Il Messia che aveva promesso non era mai giunto sulla terra, mentre un altro Dio, quello che aveva ispirato i primi tre vangeli, aveva mandato suo Figlio, Gesù Cristo, nel mondo per liberare gli uomini dagli effetti della materia e della legge di quel primo Dio.

    Secondo la lettura che viene fornita da Ernst Bloch, Marcione fu colui che “cercò di strappare radicalmente Gesù dal quadro biblico-giudaico durato fino ad allora. E ciò avvenne, notiamolo bene, senza una qualsiasi tensione o inimicizia verso i Giudei (Marcione venerava il giudeo Paolo come il suo maestro); ma nulla Gesù aveva in comune con la Bibbia di Jahvé fintanto che essa rimane tale. Marcione non solo poneva il messaggio di Cristo in contrapposizione con l’Antico Testamento, ma ne faceva qualcosa di assolutamente diverso; la rottura con l’Antico segue dunque al salto dell’Evangelo nel nuovo che appare senza confronti. In tal modo è in primo luogo a partire da Marcione che si è sviluppato ed è stato posto in risalto in genere il concetto di un Nuovo Testamento” (E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, trad. it. Milano, 1971; ed. cit. 1983, p. 227).

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La segreta alleanza di prosperità e giustizia

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Un’intervista all’economista e già direttore del World Institute for Development Economics Research dell’università delle Nazioni Unite Giovanni Andrea Cornia.

 

   Il professor Giovanni Andrea Cornia, ordinario di economia presso l'Università degli Studi di Firenze, è stato direttore del World Institute for Development Economics Research della Università delle Nazioni Unite (UNU-WIDER) a Helsinki; del Programa di Ricerca su Economic and Policy dell'UNICEF, a Firenze, e Chief Economist, sempre per l’UNICEF, a New York.  È stato anche Direttore dell'Istituto Regionale di Pianificazione Economica della Toscana. Le sue principali aree di interesse professionale sono la disuguaglianza della distribuzione dei redditi e della ricchezza, le cause della povertà, la crescita economica, il benessere dei bambini, lo sviluppo umano, le cause delle crisi di mortalità, l'economia della transizione e l'economia istituzionale. È autore di 18 libri su questi temi e di decine di articoli su autorevoli riviste scientifiche internazionali.Gli abbiamo fatto qualche domanda per capire qual è il suo punto di vista sul rapporto che esiste oggi nel mondo tra sviluppo economico e diseguaglianza, con qualche riferimento specifico anche alla situazione presente.

     Ancora oggi, nei paesi in sviluppo due delle cause "tradizionali" della disuguaglianza, come la concentrazione della terra e del capitale umano la priorità data allo sviluppo urbano o di alcune regioni, possono spiegare gran parte della variazione della disuguaglianza tra diversi paesi e a variazioni nel tempo all’interno di molti paesi. Secondo lei cosa si dovrebbe fare per ridurre l’incidenza di questi fattori?

Storicamente, la prima ondata di ‘Tigri Asiatiche’ (Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong   hanno introdotto riforme agrarie ed educativo che ridussero drasticamente la diseguaglianza della distribuzione di tali fattori di produzione - e sviluppato politiche territoriali e salariali inclusive. Lo stesso è avvenuto anche nella seconda ondata delle Tigri Asiatiche (Tailandia, Vietnam, e gran parte dell’Asia del Sud Est – ed anche in Cina) Anche in Europa Occidentale si seguirono ‘illo tempore’ - politiche di questo tipo. Con lo sviluppo economico e finanziario ed il successivo invecchiamento della popolazione, è necessario però adottare anche politiche finanziarie e previdenziali eque, ed avere un qualche controllo sui flussi di capitale.

2)   Attraverso gli effetti combinati di tasse e spese, i governi possono avere un impatto significativo sui livelli di disuguaglianza di reddito.  E le politiche fiscali progressive e di spesa a favore dei poveri possono ridurre la disuguaglianza? Il “reddito di cittadinanza” è secondo lei una modalità efficace e duratura per ridurla?

Certamente. Lo ‘stato sociale’ può avere un effetto massiccio sulla distribuzione finale del reddito, combinando tasse e spesa sociale progressivi. Il “reddito di cittadinanza” ha provato ad andare in questa direzione dal lato della spesa pubblica. Va bene per persone (anziane, handicappate, ecc.) che non possono lavorate. Per gli abili al lavoro, forse meglio è il ‘’lavoro di cittadinanza” in cui lo stato si impegna – come nel caso del programma danese denominato ‘Flex-security’ - a offrire training in nuove professioni e un lavoro (per 3 volte) a chi è disoccupato in età lavorativa. I trasferimenti incondizionati di lungo periodo possono disincentivare di occupazione per gli abili al lavoro e portar a ‘trappole della povertà” e dipendenza dai sussidi.

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Il coefficiente di Gini e un'idea liberale di giustizia

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    Il proposito di coniugare gli ideali di libertà e di giustizia, riproposto con alterne fortune da oltre due secoli, è sembrato erroneo, vano o improbabile tanto a molti liberali quanto a molti socialisti. Se per quelli che lo hanno adottato le sconfitte politiche sono state più frequenti delle vittorie, tuttavia nel lungo periodo non si può non registrare una crescita in parallelo sia del socialismo riformista e liberale rispetto a quello massimalista e terzo-internazionalista, sia di un liberalismo sempre più spesso temperato da correttivi volti a favorire una ridistribuzione complessiva della ricchezza.

    Nonostante le dispute che coinvolsero socialisti liberali o liberalsocialisti come Aldo e Nello Rosselli, Piero Calamandrei, Gaetano Salvemini, Aldo Capitini, Guido Calogero, Ernesto Rossi, Norberto Bobbio e molti altri, il loro tentativo di dare vita a un tipo di società che cercasse di coniugare in maniera efficace i valori della libertà e della giustizia è stato recepito dai padri costituenti, che ne hanno fatto due riferimenti cruciali della carta costituzionale. Alle riserve di Benedetto Croce circa la commistione di due principi a suo avviso eterogenei come quelli di libertà e di giustizia, rispose poi nel merito Guido Calogero, secondo il quale l’ideale di giustizia – che non significa ugualitarismo economico o sociale, ma l’impegno delle comunità a garantire ad ogni cittadino una dignità sociale e una disponibilità economica idonee a esercitare quelle libertà fondamentali altrimenti destinate a restare astrazioni sulla carta dei diritti –  è fondamentale per la realizzazione di una vera uguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali previsti dallo Stato liberale: “la civiltà – scriveva infatti Calogero – tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano ad inventare e a instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera di libertà”.

   Oggi le differenze tra destra e sinistra non consistono più, come un secolo fa, nel proporre due strutture diverse ed opposte della società (in base alla presenza o assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione), ma sono più che altro riconducibili a dosaggi diversi dell’intervento dello Stato nell’economia. Dopo John Maynard Keynes non è affatto detto che anche un governo a guida liberale non ritenga opportune misure di welfare più o meno permanenti: una certa giustizia distributiva, infatti, non ha solo l’effetto di realizzare un ideale di tipo etico-politico, ma anche quello di rendere la società meno conflittuale e dunque più efficiente e produttiva, nonché quello, non secondario, di favorire la crescita della domanda interna, con tutto ciò che può seguirne in termini di ricaduta sull’offerta e sui livelli occupazionali.

  • Coefficiente Di Gini
  • Giustizia

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Storie di fate, di eremiti e di pulcini d'oro

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     Una bella poesia di Alcmane, ricordo dei tempi del liceo, recita così: “Dormono le cime dei monti /e le vallate intorno, i declivi e i burroni; / dormono i rettili, quanti nella specie/ la nera terra alleva, le fiere di selva, / le varie forme di api, / i mostri nel fondo cupo del mare; / dormono le generazioni /degli uccelli dalle lunghe ali”.

    Tra le alpi apuane che guardano il mare, nelle notti d’inverno, quando uccelli notturni facevano udire il loro lugubre verso e qualche lupo il suo richiamo dal folto del bosco, in case dimesse e intorno a un focolare si raccontavano storie. Su queste montagne i vecchi “non conoscono il termine ‘leggenda’; essi conoscono semplicemente delle storie: leggenda è per loro un termine sconosciuto e alla richiesta di raccontare una leggenda ci guardano con meraviglia e imbarazzo. La ragione di tutto questo sta nel fatto che il termine ‘leggenda’ è qualcosa di codificato e classificato secondo determinati motivi e schemi che sono stati definiti dal mondo della cultura. Tutto ciò che l’anziano della montagna ci racconta è una storia che lui stesso ha sentito raccontare, alla quale si mescolano ricordi personali, fatti accaduti in passato, eventi particolari caricati di elementi fantastici e così via. Non è quindi una semplice storia o ‘leggenda’ quella che ci comunica, bensì una cultura ben precisa: quella che esprime le difficoltà della vita quotidiana, le fatiche del lavoro, l’eterna lotta fra il bene e il male, le paure, i sogni e i tentativi di dare una giustificazione a fatti misteriosi e inspiegabili”.

    Così scrive Paolo Fantozzi, nell’introduzione a questo suo Storie e leggende delle Alpi Apuane. Sulla presenza del marmo, quello stesso che Michelangelo veniva a prelevare sin qui per scavarvi i suoi capolavori, di storie c’è n’è una particolarmente suggestiva che può forse essere riassunta senza minarne troppo il senso: il signore aveva dato incarico a un angelo scansafatiche di formare gli Appennini mescolando il contenuto di vari sacchi, ma mentre passava sopra le apuane decise di fermarsi su una nuvola e di farsi un pisolino. Risvegliato e rimproverato all’improvviso da un altro angelo, si riscosse allarmato urtando uno dei sacchi e facendone precipitare il contenuto. Fu così che il marmo si sparse sulle apuane.

  • Alcmane
  • Anna Maria Ortese
  • Paolo Fantozzi

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Borges, Macedonio e la Belarte

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 Macedonio Fernández <<precursore>> di Borges in un saggio di Daniel Attala

 

   Quando in qualche scritto si parla di Macedonio Fernández è ormai invalsa la consuetudine di chiamarlo per nome, al contrario di quanto si fa normalmente con tutti gli altri autori dotati di un cognome. Si deve probabilmente a Jorge Luis Borges quest’abitudine, che contribuisce a rendere Macedonio subito familiare a chi si avventura nei suoi scritti, sebbene contengano tesi desuete e assai sorprendenti.

    Borges eredita l’amicizia di Macedonio da sua padre, ma ancor prima di essere un suo amico, Macedonio fu per lui un maestro influente, tanto da indurlo a rilevare che nessuna persona famosa lo aveva “mai impressionato come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, – scrive Borges -  la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, piuttosto che l’affermazione magistrale. Non pontificava mai: la sua eloquenza era di poche parole e perfino di frasi lasciate a mezzo. Il tono abituale era di cautelosa perplessità”.[1] L’insieme di queste ed altre prerogative del suo amico e maestro lo porteranno poi a dire, e lasciar scritto sulla sua tomba, che il non imitarne il canone, letterario e filosofico, avrebbe costituito “un’imperdonabile negligenza”.[2] 

    Macedonio, dal canto suo, “paragona Borges al poeta spagnolo J.R. Jimenez: <<tanto intelligente quanto dolorante di passione e vita, che sembra preoccuparlo>>. L’intelligenza è in effetti, secondo Macedonio, l’unico talento di Borges visibile nella sua letteratura; si tratta però, a suo avviso, di “un talento pratico, d’una muscolatura dell’anima senza interesse per l’Arte, né più né meno che le capacità dell’atletismo”.[3]

    Ma se Borges è per Macedonio il poeta dell’intelligenza, è anche paragonabile a Goethe, il quale, pur essendo non meno intelligente, avrebbe disdegnato tuttavia questo talento non facendone mai sfoggio, né diretto né indiretto.[4] Per quanto questo paragone con Goethe sia sfavorevole a Borges, secondo Daniel Attala - maestro di conferenze all’università di Bretagna Sud e autore, tra l’altro, di questo Macedonio Fernández <<précurseur>> de Borges, (Press Universitaires de Rennes, 2014) - esso nasconde e a un tempo rivela l’alta opinione che Macedonio si era fatto di lui, giudicandolo, quando aveva solo venticinque anni, come “il prosatore più dotato della lingua spagnola (di tutti i tempi – chiosa Attala, dato che non mette limiti all’elogio)”.[5]

    Tutta l’opera di Borges è attraversata dall’idea che l’io non esista, o che sia un’illusione: questa tesi gli è suggerita dal Buddhismo, da Schopenhauer e da Hume, ma ancor più direttamente proprio da Macedonio, per il quale c’è umanità solo laddove la passione intacchi il solipsismo di ciascuno e dove venga meno il legame tra la coscienza e il corpo. Ogni volta che parla di passione, riferendosi alla traslazione del vissuto di un io apparente dentro un altro io apparente, Macedonio evoca questa convinzione, che costituisce il terreno fertile per l’insorgere di una forma peculiare di misticismo, a sua volta fondata su una concezione precisa quanto radicale dell’amore.

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