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Lord Byron, un antiromantico travolto dal romanticismo (parte I)

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 (“Swept into the camp of the Romantics”)

  
 di Claudia Cardella

 

“L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrare nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili; il retore cerca di dar loro stato, grado e inamovibilità, ed ecco, alla fine di travagliose costruzioni, s’accorge d’aver trattato ombre come cose salde”.[1] Così Mario Praz introdusse un discorso a proposito della funzione e della quasi necessità di due “etichette”, cioè romantico e quella che qui, per comodità, ribattezziamo opposto a romantico. Si tratta di due etichette l’utilità delle quali è innegabile, soprattutto se, come in questo caso, si devono segnalare delle caratteristiche atipiche. Tuttavia, esse tendono a dare l’impressione che si stia parlando di quadri omogenei, nei quali tutto è in armonia con i connotati di una o dell’altra categoria. E invece bisogna tenere presente che queste etichette, solitamente, indicano piuttosto delle caratteristiche comuni, la presenza delle quali mette in relazione un autore, le sue opere, il suo pensiero, con una categoria o con un’altra.

 Ricordare ciò è particolarmente importante quando si parla di una figura complessa e contraddittoria come quella di Lord Byron. La sua figura e le sue opere sono indubbiamente fra le più note della letteratura romantica inglese; e infatti, esse vi rientrano a pieno titolo. Tuttavia, la sua notorietà di autore e di personaggio romantico impedisce di coglierne le sfumature. Notorietà dovuta non solo al fatto che, Byron ancora vivente, la fama di lui stesso e delle sue opere raggiunse dimensioni eccezionali, o perché l’immediata ricezione delle opere, in particolare Childe Harold’s Pilgrimage, fece sì che il giovane lord continuasse ad essere pensato come un autore e un personaggio romantico. Infatti, vi fu tutto il contributo di un immaginario collettivo, il quale accolse e nutrì la nota leggenda byroniana. Sin da subito, Byron venne confuso con il suo eroe, il cupo e malinconico Harold: da lì, l’immagine leggendaria e idealizzata si amplificò, cioè divenne man mano sempre più complessa, fino a creare un personaggio che ha affascinato un’intera generazione, alimentandone le fantasie e fornendogli dei modelli. Si pensi al Vampiro di John William Polidori, il quale, sin dal primo momento, venne recepito sia come un ritratto di Byron sia, al tempo stesso, come qualcosa che era uscito dalla sua penna: il racconto, infatti, venne pubblicato anonimo. Ma anche ai dipinti di Delacroix, ad un classico della narrativa come Il Conte di Montecristo di Dumas padre, oppure all’Evgenij Onegin di Puškin. Tutte queste opere, che erano allora e ancor oggi restano famose, testimoniano ognuna a modo suo la ricezione di Byron e della sua opera come qualcosa di seducentemente romantico. Nonché il suo ruolo di modello, sia come poeta sia come personaggio.

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Pentimento e perdono

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   Intorno a La fragilità del male di Dietrich Bonhoeffer.


   “Chi ama non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,” si legge nella Prima lettera ai Corinzi (13:5), e Dietrich Bonhoeffer, ne La fragilità del male, prende spunto da questo passo per osservare che, mentre la giustizia sembra illuminarci la strada “determinando il bene e il male, l’amore al contrario è cieco, consapevolmente cieco. Vede il male, ma non ne tiene conto: perdona. Soltanto l’amore può farlo. Dimentica. Non serba rancore”. Questo costituisce a suo avviso, e certo non solo per lui, un punto centrale per il cristianesimo: “se solo comprendessimo questo concetto: l’amore non serba rancore. Ogni giorno è un giorno nuovo che affronta con rinnovato sentimento, dimenticando il passato. Per questo motivo gli uomini si fanno beffe di lui, lo scherniscono. E nonostante questo continua ad accrescersi sempre di più”.
   Gesù dice anche a Pietro di perdonare non “fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, 18: 21-22) e ciò perché “perdonare e scusare non sono azioni che si contano o che hanno un limite. Non preoccuparti se hai ragione oppure no. Spetta a Dio decidere. Tu puoi farlo senza fine, perché il perdono non ha inizio e non ha termine. Si verifica quotidianamente e di continuo, perché proviene dal Signore. È la liberazione da ogni ostilità nei confronti del prossimo, perché così siamo liberati da noi stessi. Dobbiamo rinunciare al nostro proprio diritto per aiutare e servire l’altro”.

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La demofollia e la fragilità della nostra democrazia

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   Tra i vari libri scritti da Michele Ainis Demofollia è certamente quello che anticipa di più il proprio contenuto nel suo titolo. Poiché all’interno di questo saggio brillante gli argomenti che costituiscono altrettanti indizi di demofollia spaziano dai referendum alla burocrazia, dalle leggi che dovrebbero tutelare dalle fake news e garantire la privacy fino all’immigrazione, allo Jus soli e ai recenti sistemi elettorali nostrani, ci limiteremo qui a trattarne solo due particolarmente insidiosi per la democrazia.

    Il primo riguarda le condizioni in cui versa il nostro sistema giudiziario, specialmente alla luce dei sospetti circa la sua crescente politicizzazione: in virtù della concorrenza fra partiti, sindacati e associazioni, la magistratura, e in particolare il suo consiglio superiore, paiono sempre più caratterizzati da un pluralismo politicamente non neutrale e partigiano. Si sono infatti formati dei “piccoli partiti giudiziari, ciascuno con i propri capi e sottocapi” che rischiano di subordinare l’indipendenza della magistratura agli interessi della politica.

   Ebbene, come si potrebbe scongiurare l’eventualità di un consolidamento di un simile scenario anche all’interno del Csm? Secondo Ainis sorteggiando i suoi componenti, cioè formando “per sorteggio la delegazione di 16 togati (gli 8 membri laici li elegge il Parlamento) che rappresentano la magistratura italiana all’interno del Consiglio. Ovviamente con taluni accorgimenti, con un sorteggio, per così dire, ‘pilotato’. Ma tagliando alla radice gli scambi di voti e di favori che circondano ogni tornata elettorale. Del resto, sono elezioni per modo di dire. L’ultimo Csm – continua Ainis spiegando la sua proposta – è figlio d’una scelta fra 21 candidati, appena 5 in più dei posti in palio. Evidentemente l’accordo fra correnti giudiziarie precede l’elezione stessa, la rende in qualche misura irrilevante. Da qui la proposta avanzata dal primo governo Conte nel luglio 2019: una prima fase attraverso l’uso del sorteggio, selezionando un numero di candidati cinque volte superiore ai seggi; poi l’elezione dei nuovi consiglieri. Da parte loro, – continua Ainis -  il presidente dell’Anm e il vicepresidente del Csm dichiarano all’unisono: il sorteggio sarebbe una soluzione irrazionale. Ma allora è irrazionale pure la Costituzione, che ne prescrive l’uso per aggiungere 16 membri alla Consulta, quando giudica sui reati del capo dello Stato (articolo 135). E la Consulta è il massimo tribunale del Paese, mentre Mattarella è il primo magistrato; l’una e l’altro pesano più del Csm”.

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Leibniz, Kant e il rapporto della filosofia con le scienze secondo Ernst Cassirer

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   Sigmund Freud sostiene che Leibniz sia stato l’ultimo uomo ad aver saputo tutto. Dopo di lui, già con l’Enciclopedia divenne chiaro che lo scibile umano non potesse più essere padroneggiato da una mente sola. La filosofia, che fino a quel momento era stata una sorta di coordinatrice generale di tutte le attività di ricerca nei campi più disparati, perse questa funzione. La “vecchia metafisica” – come la chiama Hegel – che aveva svolto quella funzione più di ogni altra sua componente e che per Cartesio ne costituiva il fusto centrale, venne da Kant relegata nell’alveo delle attività pseudoscientifiche, buona tutt’al più a mostrare l’aspirazione legittima e profonda dell’anima umana a conseguire un sapere assoluto e incondizionato. Da questo punto in poi, il rapporto tra la filosofia e le scienze particolari sarà sempre più problematico e incerto.

   Con Kant, la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia: se infatti una volta si poteva eventualmente “convenire con l’orgogliosa pretesa della facoltà teologica di considerare quella filosofica la sua ancella”, dopo Kant è rimasta aperta la questione se “l’ancella precedesse la sua graziosa signora con la fiaccola o le reggesse lo strascico”. Ma nel secolo dei lumi, secondo Ernst Cassirer, non solo la filosofia si emancipa definitivamente dalla teologia, ma si trova anche a dover ripensare radicalmente le proprie relazioni con le altre scienze particolari.

  Tali relazioni costituiscono il filo rosso che lega insieme i quattro saggi brevi di Ernst Cassirer raccolti nel volume che qui presentiamo (Ernst Cassirer, Kant e la biologia moderna e altri scritti, a cura di Riccardo De Biase, Marchese editore, Grumo Nevano (Na), 2014). Esse risultano, dopo Kant, sempre più precarie, in quanto pare sempre più incrinarsi la fiducia nella possibilità di una connessione sistematica del sapere e nell’esistenza di uno spazio intellettuale omogeneo. Mentre nei sistemi del razionalismo classico, per esempio, “la filosofia appariva come la portatrice della fiaccola della scienza, le mostrava i fini e le batteva le vie. Al contrario, nell’interpretazione del positivismo, veniva sempre più sospinta al rango di semplice seguace, seguiva la scienza come ‘lo spigolatore segue il mietitore’. Ma, in linea di principio, è possibile – e questa è secondo Cassirer la vera svolta post-kantiana – anche un terzo tipo di rapporto. La filosofia odierna non può tornare indietro a quell’ideale di ‘dottrina della scienza’, come aveva indicato ancora Fichte nel suo scritto Sul concetto di dottrina della scienza; non può mostrare un sommo, incondizionatamente certo principio metafisico per ricavare da questo, facendone discendere deduttivamente secondo forma e contenuto, il tutto del sapere. E tanto meno può essere compito della filosofia tentare di pacificare le lotte interne che sempre di nuovo si aprono e si mostrano nelle scienze, per portarvi pace attraverso rapide soluzioni. Essa, piuttosto, sta nel mezzo di queste lotte, non potrà né vorrà altro che stare in mezzo a loro in quanto co-disputatrice. Invece di superare le opposte posizioni mediante un’affermazione di potenza del pensiero, o di fare il tentativo di conciliarle mediante qualche semplice compromesso, la filosofia deve, piuttosto, renderle trasparenti in tutta la loro serietà e in tutto il loro peso” (ivi, pp. 39-40).

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Piero Martinetti, Simone Weil e l'attualità del marcionismo

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     Piero Martinetti e Simone Weil sono morti entrambi nel 1943 e si può presumere che ignorassero reciprocamente le loro opere. Ebbero entrambi atteggiamenti pubblici intransigenti verso il fascismo e il nazismo: la Weil tornò appositamente in Europa dagli Stati Uniti per combattere Hitler e Martinetti fu l’unico filosofo tra la dozzina di professori che su 1200 accademici italiani si rifiutò di prestare giuramento al regime. Inoltre, entrambi mostrarono qualche simpatia per il marcionismo.  

    Marcione di Sinope fu un eretico della metà del secondo secolo che considerava il Vecchio Testamento come il prodotto di un Dio che aveva tutti i pregi e i difetti dell’umanità e la cui legge risultava da una miscellanea di giustizia e di arbitrio, di amore e odio. Il Messia che aveva promesso non era mai giunto sulla terra, mentre un altro Dio, quello che aveva ispirato i primi tre vangeli, aveva mandato suo Figlio, Gesù Cristo, nel mondo per liberare gli uomini dagli effetti della materia e della legge di quel primo Dio.

    Secondo la lettura che viene fornita da Ernst Bloch, Marcione fu colui che “cercò di strappare radicalmente Gesù dal quadro biblico-giudaico durato fino ad allora. E ciò avvenne, notiamolo bene, senza una qualsiasi tensione o inimicizia verso i Giudei (Marcione venerava il giudeo Paolo come il suo maestro); ma nulla Gesù aveva in comune con la Bibbia di Jahvé fintanto che essa rimane tale. Marcione non solo poneva il messaggio di Cristo in contrapposizione con l’Antico Testamento, ma ne faceva qualcosa di assolutamente diverso; la rottura con l’Antico segue dunque al salto dell’Evangelo nel nuovo che appare senza confronti. In tal modo è in primo luogo a partire da Marcione che si è sviluppato ed è stato posto in risalto in genere il concetto di un Nuovo Testamento” (E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, trad. it. Milano, 1971; ed. cit. 1983, p. 227).

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La segreta alleanza di prosperità e giustizia

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Un’intervista all’economista e già direttore del World Institute for Development Economics Research dell’università delle Nazioni Unite Giovanni Andrea Cornia.

 

   Il professor Giovanni Andrea Cornia, ordinario di economia presso l'Università degli Studi di Firenze, è stato direttore del World Institute for Development Economics Research della Università delle Nazioni Unite (UNU-WIDER) a Helsinki; del Programa di Ricerca su Economic and Policy dell'UNICEF, a Firenze, e Chief Economist, sempre per l’UNICEF, a New York.  È stato anche Direttore dell'Istituto Regionale di Pianificazione Economica della Toscana. Le sue principali aree di interesse professionale sono la disuguaglianza della distribuzione dei redditi e della ricchezza, le cause della povertà, la crescita economica, il benessere dei bambini, lo sviluppo umano, le cause delle crisi di mortalità, l'economia della transizione e l'economia istituzionale. È autore di 18 libri su questi temi e di decine di articoli su autorevoli riviste scientifiche internazionali.Gli abbiamo fatto qualche domanda per capire qual è il suo punto di vista sul rapporto che esiste oggi nel mondo tra sviluppo economico e diseguaglianza, con qualche riferimento specifico anche alla situazione presente.

     Ancora oggi, nei paesi in sviluppo due delle cause "tradizionali" della disuguaglianza, come la concentrazione della terra e del capitale umano la priorità data allo sviluppo urbano o di alcune regioni, possono spiegare gran parte della variazione della disuguaglianza tra diversi paesi e a variazioni nel tempo all’interno di molti paesi. Secondo lei cosa si dovrebbe fare per ridurre l’incidenza di questi fattori?

Storicamente, la prima ondata di ‘Tigri Asiatiche’ (Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong   hanno introdotto riforme agrarie ed educativo che ridussero drasticamente la diseguaglianza della distribuzione di tali fattori di produzione - e sviluppato politiche territoriali e salariali inclusive. Lo stesso è avvenuto anche nella seconda ondata delle Tigri Asiatiche (Tailandia, Vietnam, e gran parte dell’Asia del Sud Est – ed anche in Cina) Anche in Europa Occidentale si seguirono ‘illo tempore’ - politiche di questo tipo. Con lo sviluppo economico e finanziario ed il successivo invecchiamento della popolazione, è necessario però adottare anche politiche finanziarie e previdenziali eque, ed avere un qualche controllo sui flussi di capitale.

2)   Attraverso gli effetti combinati di tasse e spese, i governi possono avere un impatto significativo sui livelli di disuguaglianza di reddito.  E le politiche fiscali progressive e di spesa a favore dei poveri possono ridurre la disuguaglianza? Il “reddito di cittadinanza” è secondo lei una modalità efficace e duratura per ridurla?

Certamente. Lo ‘stato sociale’ può avere un effetto massiccio sulla distribuzione finale del reddito, combinando tasse e spesa sociale progressivi. Il “reddito di cittadinanza” ha provato ad andare in questa direzione dal lato della spesa pubblica. Va bene per persone (anziane, handicappate, ecc.) che non possono lavorate. Per gli abili al lavoro, forse meglio è il ‘’lavoro di cittadinanza” in cui lo stato si impegna – come nel caso del programma danese denominato ‘Flex-security’ - a offrire training in nuove professioni e un lavoro (per 3 volte) a chi è disoccupato in età lavorativa. I trasferimenti incondizionati di lungo periodo possono disincentivare di occupazione per gli abili al lavoro e portar a ‘trappole della povertà” e dipendenza dai sussidi.

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