La democrazia e l'arte di ascoltare
Ovvero… come ripartire da Guido Calogero
Guido Calogero scrisse L’ABC della democrazia nell’autunno del 1944, pochi mesi dopo che i nazisti avevano lasciato la capitale. Il suo è un manuale essenziale che contiene tutto ciò che ogni cittadino di uno stato democratico dovrebbe sapere per potersi a tutti gli effetti considerare tale. Come la filosofia, anche la democrazia è per Calogero essenzialmente dialogo. Come in ogni dialogo, la difficolta principale non è quella di aver diritto di parola, o di saper parlare, o l’avere il coraggio necessario per farlo: la difficoltà principale è saper ascoltare.
“La domanda «Che cosa è la democrazia?» si risolve perciò in quest’altra domanda: «Che cosa debbo fare per essere un buon democratico?».” Per essere un buon democratico, bisogna saper “tener conto degli altri”. Questo è “l’atteggiamento fondamentale dello spirito democratico. […] L’unità della democrazia è l’unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda, e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze.”
Ma come si tiene conto della volontà degli altri? “Anzitutto – scrive Calogero - ascoltandoli. Prima ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle orecchie. La vera democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli ascoltatori. Naturalmente, perché qualcuno ascolti, bisogna bene che qualcuno parli: ma certe volte si capisce anche senza che gli altri parlino, e non per nulla si sente fastidio per i chiacchieroni e reverenza per i taciturni attenti. La democrazia è dunque, in primo luogo, colloquio”.
Il sogno di una società più giusta non è solo comunista.
Una risposta ad Alessandro Barbero
Il saper narrare un’epoca, i suoi aspetti più caratteristici e concreti insieme a quelli più problematici e generali, è senza dubbio il segnale che si possiede una visione organica e viva della storia. Come accade con tutti i grandi storici anche Alessandro Barbero sa narrarne le vicende in modo coinvolgente: le sue lezioni, in particolare, risultano spesso in grado di proiettare una luce nuova e viva su tutta un’epoca.
Pur essendo un medievista, negli ultimi anni Alessandro Barbero ha tenuto diverse lezioni anche di storia contemporanea, alcune delle quali illuminanti. Quelle sul totalitarismo, in particolare, sono capaci di chiarire al grande pubblico molti passaggi oscuri o delicati, come per esempio la genesi del patto Molotov-Ribbentrop, e possono contribuire, oltre che a fare chiarezza su alcuni snodi cruciali nella storia del 900, anche ad agevolare o riattivare un confronto tra diverse prospettive storiografiche che negli ultimi anni hanno fatto una certa fatica a comunicare tra loro.
Ora, una tesi abbastanza ricorrente in queste lezioni (e in particolare in una tenuta il 30 Ottobre 2019 sulle differenze tra vari tipi di totalitarismo) è, in sintesi, la seguente: tutti i totalitarismi del Novecento hanno commesso crimini e stragi con modalità disumane e terribili, ma c’è almeno una differenza fondamentale: mentre il fascismo e il nazismo hanno avuto una genesi che non era ispirata da alcun ideale positivo di giustizia o di solidarietà fra gli uomini, il comunismo al contrario è stato ispirato per secoli da questi ideali e valori. In particolare, nella lezione, ora on line, cui si fa qui riferimento sui diversi tipi di totalitarismo Barbero sostiene la tesi seguente: Stalin ha messo in piedi un regime omicida e assassino, ma “essere comunista per la stragrande maggioranza della gente che per 150 anni è stata comunista ha voluto dire sognare un mondo migliore”. Nei vent’anni in cui è stato al potere Stalin ha fatto più morti di quelli che ha fatto Hitler: “certo, ma dopo di che il comunismo è quello? Vallo un po’ a dire a uno che lottava per organizzare gli operai e farli scioperare nell’Italia unita di Vittorio Emanuele II ... che il comunismo sono i campi di concentramento…”. Per questo non si può dire che essere comunista è come essere fascista o nazista: la differenza è evidente; e negarla significa negare la verità.
In effetti Barbero ha ragione: la differenza è evidente. Chi era comunista nell’800 o ai primi del 900 lottava per un mondo migliore, per un mondo più giusto in cui fosse pienamente tutelata la piena dignità di ogni essere umano, anche se questo sogno comportava in effetti, e già in linea di principio, la negazione di qualche libertà che, dal punto di vista liberale, è assolutamente irrinunciabile, come ad esempio la possibilità di fare impresa e di possedere dei mezzi di produzione, ovvero di avere diritto di godere dei frutti del proprio lavoro sotto il profilo sia quantitativo sia qualitativo, ossia anche della propria intelligenza e della propria creatività.
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La propensione a decontestualizzare la storia e il nuovo totalitarismo
La proposta di rimuovere la statua dedicata ad Indro Montanelli dai giardini pubblici di Milano che portano il suo nome non poteva che far discutere. Dopo l’uccisione di George Floyd, i Santinelli e altre associazioni di cittadini milanesi ritengono cha Montanelli sia stato un fascista e un razzista, e che quindi la sua figura non possa essere portata ad esempio dei cittadini attraverso un monumento pubblico. Inoltre, e la cosa appare se possibile ancora più grave, viene accusato di aver acquistato una schiava sessuale bambina.
Ora, la prima delle due contestazioni mosse a Montanelli è vera “per un certo periodo”, e la seconda lo è “in un certo senso”: la prima perché, per ammissione dello stesso Montanelli, in gioventù, quando aveva circa 25 anni e partì come volontario per partecipare alla campagna d’Etiopia, era fascista, come la maggior parte degli italiani allora; la seconda invece perché la grande maggioranza dei cittadini bianchi del mondo, sia che fossero italiani, europei o statunitensi, nel 1936 pensavano che le popolazioni africane di colore fossero sotto qualche profilo “inferiori” alle popolazioni bianche occidentali, chi per ragioni storico-culturali, chi per ragioni razziali, chi per entrambe. In questo senso, e per questo motivo, coloro che tacciano oggi Montanelli di razzismo non potrebbero che considerare “razzisti” anche loro, finendo così col giudicare per lo più razzista un’epoca storica.
Uno che potrebbe oggi, in base a un simile criterio, essere tacciato di razzismo è, per esempio, Albert Schweitzer. Il grande medico e musicista alsaziano, premio Nobel per la pace nel 1952, che passò gran parte della sua vita a curare bambini e adulti a Lamabaréné, in Gabon, pensava che qualsiasi processo di decolonizzazione fosse allora prematuro, perché la maggior parte delle popolazioni africane erano incapaci di governarsi da sole senza innescare delle sanguinose guerre civili. Schweitzer, che Albert Einstein definì come la persona più buona del mondo, considerava infatti gli africani come “fratelli minori”, da “seguire” ancora per un po’. I fatti gli hanno poi dato ragione, confermando pienamente le sue previsioni, ma la lettera che scrisse allora a De Gaulle per indurlo a desistere dall’abbandonare l’Africa a se stessa rimase senza esito.
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Un maestro e un amico. Ernesto Rossi e il suo ritratto di Gaetano Salvemini
Era da pochi mesi finita la prima mondiale quando Ernesto Rossi conobbe Gaetano Salvemini. Fu una domenica a Firenze, in una saletta nei pressi del cimitero degli inglesi in cui lui ed altri si erano ritrovati per discutere di sistemi elettorali. C’erano una cinquantina di persone, per lo più collaboratori o lettori dell’Unità, la rivista che Salvemini diresse dal 1911 al 1920.
In quella saletta un tizio stava parlando in mezzo a una gran confusione e continuò a parlare per più di un’ora. Alla fine del suo discorso nessuno ci aveva capito nulla e quando Salvemini prese la parola iniziò il suo intervento così: “l’amico che abbiamo ora ascoltato, ha detto che…” e a poco a poco – racconta Rossi - “fu come se, in un treno che è stato trascinato a lungo sotto la pioggia da una sbuffante macchina a vapore, qualcuno strusciasse col fazzoletto pulito sul vetro del finestrino sporco di fuliggine. Parlava ed il vetro diveniva sempre più limpido, e sempre più chiaro si vedeva il paesaggio fino al lontano orizzonte. Dopo avere riassunto non quello che aveva detto, ma quello che avrebbe dovuto dire il precedente oratore, Salvemini prese a sviluppare il filo delle sue deduzioni. Con una logica così semplice e così rigorosa che non sarebbe stato possibile non capire. Alla fine della sua esposizione il sistema della rappresentanza proporzionale, che prima ci sembrava un terribile rompicapo, era divenuto la cosa più semplice del mondo”. Allora, rivolto chi gli sedeva accanto, Rossi commentò: “per un intellettuale, chiarezza equivale ad onestà”.
I primi passi dell’amicizia tra Rossi e Salvemini furono piuttosto difficili. Quando si conobbero Rossi aveva ventidue anni e nessuna esperienza politica: “ero andato al fronte – scrive - come volontario di guerra, non per Trento e Trieste, ma per impedire che il militarismo tedesco soffocasse, per tutta un’epoca, la libertà in Europa. Durante l’ora della cosiddetta ‘morale’, avevo letto e spiegato ai miei soldati I doveri dell’uomo di Mazzini. Tornato a Firenze, mutilato, non potevo ammettere che tutte le sofferenze patite e il sacrificio di tante giovani vite (avevo perduto al fronte anche mio fratello maggiore e i miei due migliori amici) venissero vilipesi dai socialisti, che erano stati in gran parte imboscati nelle fabbriche d’armi, e che, fino a Caporetto, avevano adottato la vile politica del <<non collaborare, né sabotare>>”.
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