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Il paradosso di Popper e le minacce della guerra ibrida

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 Il cosiddetto “paradosso della tolleranza”, formulato da Karl Popper anche ne La società aperta e i suoi nemici (1945), pone una domanda cruciale per le democrazie contemporanee: una società tollerante deve tollerare anche l’intolleranza? La risposta di Popper è netta: no. Una tolleranza illimitata porterebbe alla distruzione della tolleranza stessa, perché i movimenti intolleranti, se lasciati liberi di agire, approfitterebbero delle libertà democratiche per minarle dall’interno.

 Popper sostiene che una società liberale deve essere intollerante verso chi non accetta la discussione razionale e cerca di imporsi con la forza o la propaganda violenta. Non propone una censura preventiva, ma una vigilanza attiva, argomentando a riguardo come segue: “Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti; se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.” E ancora: “Non dobbiamo, quindi, dichiarare fuorilegge le opinioni intolleranti, finché possiamo contrastarle con la ragione e tenerle sotto controllo tramite l'opinione pubblica. Ma dobbiamo reclamare il diritto di proibirle, se necessario anche con la forza.”

  • Il Paradosso Di Popper
  • La Guerra Ibrida

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Meglio stare nella sala vicino al fuoco

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   Cosa può cercare il cuore nobile e stanco di una scrittrice? Forse null’altro che cuori altrettanto nobili, ma con le antenne ben pronte per captare la risonanza più limpida della sua anima. A questo in fondo servono gli amici e non a caso vorremmo che il loro ascolto e le loro parole ci accompagnassero ancora nella sera della vita. Marta Maria Pezzoli, detta Mattia, era una giovane studentessa universitaria che fu per un certo periodo amica di Anna Maria Ortese e che condivideva con lei la devozione per Catherine Mansfield. Timida e introversa, dopo gli studi universitari Mattia si orientò - come scrive il nipote Stefano Pezzoli nella breve nota biografica che chiude questo volume epistolare - “anziché verso l’insegnamento, verso l’appartato mondo della conservazione dei libri”.

    Il libro in questione (Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia, Adelphi editore, Milano, 2023) raccoglie lettere scritte dall’Ortese dal maggio del 1940 al Luglio 1943. Si tratta di lettere per lo più intime, che non recano grandi tracce di quel disgraziato periodo bellico, e dalle quali emerge una sorta di autoritratto spirituale della scrittrice. Seppur manifestando umori diversi, in alcune di esse l’Ortese accenna al desiderio di rivedere l’amica, come per esempio in questo passo: “Cara Mattia, desidero non so come riaprire le ali (se mai ne ho avute) e riprendere il volo verso l’Italia alta. Mi parrà un sogno ritrovare dei visi gentili, dei cuori pronti e nobili come il tuo.”

    La visione del mondo che emerge da queste pagine non è carina, anzi, è cruda, onesta, in un certo modo spietata e sanguigna: “ho grande diffidenza delle creature, - scrive l’Ortese in una di queste - ma so che a volte esse consolano. Credo fermamente che vivano su questa terra alcuni spiriti nobilissimi. Tutto il resto io disprezzo e odio. Mi sembra di essere incatenata. Quante parole violente, mi fanno dolere. So che prima di tutto dovrei vincere me stessa, far di me stessa una creatura buona. Ma Mattia, io chiedo delle risposte al mondo, non sono fatta per le solitudini – e in questi paesi nessuna creatura risponde. Ho con me i tuoi libri – t’invidio perché non sei qui. T’abbraccio”.

  • Anna Maria Ortese

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Il "letteralismo", l'Islam e la "palestinizzazione" dell'Occidente

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 Parte prima - Il «letteralismo» e l’Islam

 

Per lo psicoanalista americano James Hillman, allievo di Carl Gustav Jung, “la più grave delle malattie di cui soffre la psicoanalisi è il «letteralismo». La cura di questa malattia consisterebbe nel riorganizzare il materiale clinico mediante l’arte narrativa e l’esercizio nell’uso di metafore: l’obiettivo dell’analisi infatti non consiste tanto nel “conoscere se stessi”, quanto nel cercare se stessi nel mito, là “dove gli dei e gli uomini si incontrano”. Il «letteralismo» sarebbe in questo senso una malattia che affligge un’attività che, come la psicoanalisi, era nata per curare. Ma se questo è possibile, ciò dipende dal fatto che il «letteralismo» può, in linea più generale, essere considerato come una malattia dello spirito anche in altre sue manifestazioni.

In ambito religioso, per esempio, il «letteralismo» ha caratterizzato a lungo, e in buona parte caratterizza ancora, la religione cristiana. Galileo, per esempio, per difendersi dalle accuse che gli erano mosse di fare nelle sue opere affermazioni contrarie alle sacre scritture, sosteneva che queste, essendo testi di carattere religioso, non dovessero essere interpretate alla lettera per quanto riguardava le loro implicazioni conoscitive. Il vero senso della Scrittura non corrisponde infatti secondo Galileo al senso immediato delle parole, o al loro significato letterale. Infatti, chi si limitasse ad una interpretazione «letteralistica» della Scrittura dovrebbe poi accettare “non solo diverse contraddizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poiché sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anche talvolta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future”. Una simile opzione può però non essere quella prescelta, perché le proposizioni dettate dallo Spirito santo, “furono in tal guisa profferite dagli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato”.

Circa un millennio e messo prima di Galileo, Origene (Alessandria d’Egitto, 185 – Tiro, 254) aveva già distinto possibili approcci diversi alla Sacra Scrittura: quello fisico o letterale, quello psichico o morale, quello spirituale o mistico. Si trattava di tre modi per esprimere il senso degli scritti sacri. Il primo e più semplice era quello letterale; il secondo, più complesso, comportava una riflessione sul senso che i passi di un testo sacro potevano avere per l’anima umana; e infine il terzo, quello ideale, si fondava sulla legge spirituale che contiene “l’ombra dei beni futuri”, e cioè sapeva indicare in modo intimamene persuasivo la strada giusta per raggiungerli in questa e nell’altra vita.

  • Empatia
  • Henry Corbin
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  • Occidente.
  • Palestinizzazione

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In mezzo a un guado, sospesi tra due etiche

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   Un anno prima della sua morte, avvenuta il 14 giugno del 1920 a Monaco di Baviera, Max Weber tenne in quella stessa città una conferenza divenuta poi famosa. Tale conferenza s’intitolava la Politica come professione (Beruf, che dal tedesco si può tradurre sia con il termine “professione” sia con “vocazione”) e vi si affrontava il tema, classico e sempre cruciale, dei rapporti fra etica e politica.  Per spiegare questi rapporti Weber ricorre alla distinzione fra etica della convinzione ed etica della responsabilità.

    L’etica della convin­zione, o dei principi, (Gesinnungsethik) è un’etica assoluta, di chi ope­ra solo seguendo principi rite­nuti giusti in sé, indipendente­mente dalle loro conseguenze. In base questo tipo di etica un certo principio dev’essere seguito a qualsiasi costo: “avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”. Invece, l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik) è più pertinente alla politica e tiene conto delle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mettono in atto.

  • Max Weber
  • Winston Churchill

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Abraham Yehoshua, il sionismo e la vocazione totalitaria dell'antisemitismo

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     In Totem e tabù Sigmund Freud sosteneva di avere in sé molti tratti caratteristici dell’ebraismo, e soprattutto “il principio fondamentale”. Pur non riuscendo a formularlo a parole, confidava però che un giorno la ricerca scientifica lo avrebbe chiarito. Per comprendere questo “principio fondamentale”, in Antisemitismo e sionismo Abraham Yehoshua - il grande scrittore israeliano autore di alcuni capolavori della letteratura di ogni tempo, come per esempio L’amante, Il signor Mani e Ritorno dall’India - sostiene che può rivelarsi utile la comprensione della radice dell’antisemitismo: questa ci aiuterebbe infatti “a sciogliere in qualche modo il groviglio del «mistero» dell’identità ebraica”.

   Un testo da cui l’analisi Yehoshua prende le mosse per comprendere, mediante lo studio delle ragioni dell’antisemitismo, l’identità ebraica è il Libro di Ester, scritto da ebrei per altri ebrei in un periodo oscillante tra il IV e il II secolo a.c.. Si tratta di un testo canonico, parte integrante delle Sacre Scritture, che gli ebrei rileggono ogni anno nelle sinagoghe. In quest’opera è reperibile la tesi, enunciata per bocca di Hamam, che il popolo ebraico è diverso dagli altri fra i quali vive e che “la religione ebraica non potrà venire adottata da altre nazioni, come avviene per la greca, ad esempio, comune a molti popoli dell’epoca”.

  • Abraham Yehoshua
  • Antisemitismo
  • Sionismo

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La polvere di un senso, tra spilli di parole

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   Damema Papini y von Marcard è una pittrice nativa di Ibiza, ma da molti anni residente in Toscana. I suoi dipinti sembrano riprendere un discorso rimasto in sospeso agli inizi del Novecento. In particolare, vi si possono riconoscere distintamente echi di Matisse, i suoi colori e il suo gusto per la narrazione di storie con poche figure capitate quasi per caso nel destino dello stesso quadro, tutte più o meno trasognate e luminose.  

    In virtù di un destino non meno ricco di colori e di luce la pittrice è anche scrittrice, autrice ad oggi di un romanzo (La mia isola e di Tito, 2008) e di due volumi di poesie. Tenere tenebre è la sua ultima silloge pubblicata (la prima, La stanza dei cigni, è uscita nel 2023) ed è attraversata dalla storia di un dolore avvolgente, trattato senz’ombra di retorica, e dagli screzi con la vita di ogni giorno, nella casa di campagna di ogni giorno, con le figlie da accompagnare, con la maggiore che scrive da remoti lidi, con una cucciola che soggiorna talora fradicia ai piedi di un divano e un piccolo principe con cui filosofare insieme guardando le stelle.

  • Damema Papini Y Von Marcard
  • Matisse
  • Poesia

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Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung

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   All’inizio degli anni 70 ci sembrava normale partecipare a riunioni in una sala fumosa dove campeggiavano, dietro un tavolo con delle sedie, due gigantografie, rispettivamente di Josif Stalin e di Mao Tse Tung. La percentuale degli studenti del nostro liceo che erano regolarmente iscritti a Stella Rossa non era alta, ma molti, in veste di amici o simpatizzanti, partecipavamo comunque alle riunioni della Lega rivoluzionaria della scuola, che di Stella Rossa era l’emanazione in ambito studentesco.

     Allora ci sembrava normale considerare Stalin un bravo rivoluzionario, che aveva dedicato la sua vita alla classe operaia, oltre ad aver salvato il mondo dal nazismo; così come ci sembrava normale essere marxisti-leninisti e maiosti. Di Mao conoscevamo in genere solo qualche pagina del suo libretto rosso, molto di moda in quegli anni, e avevamo un’idea vaga e idealizzata di come funzionasse la società cinese. Su Stalin qualcuno aveva letto, anche sul manuale di storia, che sì, aveva commesso qualche esagerazione, ma questo non intaccava il giudizio complessivo sulla bontà dei valori di riferimento a cui aveva dedicato la sua vita. Il fatto che questi due protagonisti della storia del Novecento potessero aver provocato la morte di decine di milioni di loro concittadini in tempo di pace ci era allora ignoto.  A scuola nessuno vi aveva fatto mai cenno e i libri di testo tendevano a glissare sulle dimensioni dei loro crimini nonostante che Arcipelago Gulag di Solgenitsin iniziasse a circolare in Italia proprio in quel periodo.

    Dei crimini di Stalin scoprimmo la portata solo molti anni dopo, quando, dopo il crollo dell’URSS, furono aperti i suoi archivi e per molti storici, anche italiani, fu possibile accedervi. Allora, anche quei pochi che ne sapevano qualcosa non ne parlavano volentieri, almeno a scuola, dove le assemblee erano monopolizzate dai cosiddetti gruppuscoli extraparlamentari. I più famosi, almeno dalle nostre parti, erano Lotta Continua, Avanguardia operaia, Il Manifesto… ma nel nostro liceo il gruppo più forte e organizzato, quello che potremmo ritenere egemone nel movimento studentesco, era Stella Rossa, dichiaratamente stalinista.

  • Lenin
  • Mao Tse Tung
  • Marx
  • Sessantotto

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Uno scrittore-editore nella città dei Montanelli

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    Il paese che dette i natali a Indro Montanelli, e che ancora prima li aveva dati a un altro illustre Montanelli, quel Giuseppe che era stato uno dei triumviri nella Repubblica Fiorentina, è una cittadina che si trova nella valle dell’Arno, in una posizione quasi equidistante tra Firenze, Pisa e Lucca. La sua dimensione è in effetti ancora incerta tra quella della città e quella di un paese, per la distanza breve tra il borgo antico e la campagna, che pare quasi di poter toccare dalle sue strade, piazze e stradine.

    Fucecchio, di cui si parla, è in effetti una cittadina, ma dotata, oltre che di un bel centro storico (ancorché da troppo tempo poco valorizzato) e di una bella campagna intorno, anche di una rimarchevole vita culturale, più intensa e viva anche di quella reperibile in città più grandi. Di Fucecchio v’è una parte alta e una parte bassa e Indro Montanelli non si lasciò sfuggire l’occasione di descrivere le battaglie tra insuesi (gli abitanti della parte alta) e ingiuesi (gli abitanti dei quella bassa). Oggi questi scontri a colpi di uova non ci sono più, ma c’è il palio, ci sono le cene delle contrade, goliardiche e propiziatrici di vittorie, la sfilata della mattina con i costumi medievali e poi, nel pomeriggio, la disfida finale nella “buca”, ovvero il circuito di sabbia subito fuori città, dove il palio si tiene ogni anno.

  • Aldemaro Toni
  • Erba DArno
  • Erba DarnoAldemaro Toni

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La sconfitta pilotata dell'Ucraina e la linea rossa di Putin

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    In questi giorni molte città ucraine sono di nuovo sotto il fuoco dei missili e delle bombe di Mosca. Questa strage di civili, che non risparmia nemmeno i soccorritori, continua da oltre due anni, ma a differenza di quanto succedeva nei primi mesi successivi all’invasione russa oggi l’Ucraina disporrebbe delle armi idonee per colpire le postazioni da cui partono quei missili. Se non lo fa, è perché i suoi alleati occidentali hanno posto un limite all’utilizzo di quelle armi, vietandone l’uso oltre una certa distanza dal confine. Il Cremlino ha cosi spostato tutte le sue basi missilistiche dove non possono essere colpite, pur potendo invece continuare a colpire i civili ucraini e le infrastrutture energetiche vitali nel territorio invaso.

     Questo veto degli alleati mirava probabilmente fin dall’inizio a non superare la linea rossa tracciata da Putin, per il quale non è accettabile qualsiasi esito del conflitto che non possa presentare al popolo russo come una vittoria. Il dittatore del Cremlino cerca infatti d’indurre l’Ucraina a una resa sostanziale pur sapendo che questo comporterà per la Russia dei costi enormi a livello economico e geopolitico. L’occidente, d’altro canto, ha accettato di rispettare questa linea rossa per non testare l’autenticità del ricatto nucleare messo in campo da Putin, confidando a sua volta di poter trarre comunque dalla situazione dei vantaggi consistenti, che in effetti sono stati puntualmente raggiunti: una minore dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, un logoramento economico e militare di quest’ultima, la possibilità di saggiarne l’efficienza nell’uso di armi convenzionali e, soprattutto, l’allargamento della NATO con l’ingresso della Svezia e della Finlandia.

  • La Sconfitta Pilotata DellUcraina

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Dove vanno i liberaldemocratici?

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    In un articolo-saggio pubblicato sull’Espresso il 5 febbraio 1978 e intitolato Quel che resta e quel che è sparito, Vittorio Saltini sosteneva che, sulla spinta del 68, solo il gruppo radicale fosse stato davvero efficace, almeno in paragone alla sua forza numerica, nel rendere il nostro paese più civile e democratico: “senza troppe illusioni marxiste-operaie”, i radicali avevano infatti capito che la possibilità aperta dal '68 “era il mutamento del costume e quindi delle leggi che limitavano i diritti civili e con le loro iniziative, come ha mostrato il voto sul divorzio, hanno favorito la crescita di tutta la sinistra. L'efficacia dei radicali, malgrado i limiti della loro dirigenza, dà un'idea di quello che si sarebbe potuto fare dal '68 ad oggi, se migliaia di intellettuali e di giovani non si fossero dispersi nei sogni conformisticamente marxisti del Manifesto, di Avanguardia Operaia, Lotta Continua”.

   Oggi, purtroppo, dopo la morte di Marco Pannella, anche le coraggiose battaglie radicali sembrano essersi dissolte in corollari effimeri del vasto e spesso affabulante tentativo di dare vita a un campo largo di una sinistra ormai a guida populista e islam-comunista. L’impressione è infatti che questa sinistra sia più intenta ad adornarsi di una contraddittoria miscela di ideali piuttosto che non ad affrontare in modo realistico le sfide che la nostra epoca ci pone di fronte. Una simile contraddittoria miscela può far sorridere chiunque nutra per tali ideali un sincero rispetto, mentre suscita ondate di opportunistico consenso in tutti coloro che vi intravedono un’occasione di riscatto elettorale. Certo, questi non sembrano dispiaciuti per l’evoluzione politicante di alcuni autorevoli esponenti di un partito che è davvero riuscito, nonostante le sue modeste dimensioni, a rendere negli anni 60 e 70 l’Italia un paese assai meno incivile e retrivo. 

  • Liberaldemocrazia

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L'islam-comunismo e la stanchezza della democrazia

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   Secondo un sondaggio pubblicato dalla Bild Zeitung e rilanciato di recente da Italia Oggi, per i giovani islamici che frequentano il ginnasio o un istituto professionale nel Land della bassa Sassonia il Corano è più importante della legge tedesca. Il 45% dei ragazzi intervistati è convinto che uno Stato Islamico sia la miglior forma di governo possibile e il 35,3 si dichiara comprensivo verso chi ha commesso atti di violenza contro coloro che hanno offeso Allah o il profeta Maometto. Per il 31,3% è giustificata in generale anche la reazione violenta contro il mondo occidentale che minaccia i musulmani, mentre il 67,8% ritiene che le regole dettate dal Corano siano più importanti delle leggi tedesche. Inoltre, per il 51,5% solo l'Islam è in grado di risolvere i problemi del nostro tempo.

    Trattandosi di un sondaggio condotto dal Kriminologische Forschung Institut, (Istituto di ricerca criminologica) non c’è motivo di dubitare della sua attendibilità, anche perché in fondo rimarca un fenomeno che non si discosta molto da quanto un comune cittadino europeo può comunque riscontrare in base alla sua esperienza e alle sue conoscenze. Considerando che si tratta di risposte formulate a freddo, senza cioè particolari pressioni ambientali, si può facilmente immaginare come potrebbero essere state in un periodo di stress socio-culturale maggiore, come per esempio se i giovani intervistati si fossero trovati costretti ad operare una scelta tra le leggi di uno Stato laico e democratico e quelle dettate dal Corano in un frangente storico in cui la propria comunità religiosa di riferimento fosse stata impegnata in un conflitto con quello Stato.

  • Democrazia
  • Islam Comunismo
  • Stanchezza

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La poetica di Li Po, tra Confucio e Lao-Tzu

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     “Se la nostra vita fosse in ogni momento piena di senso, se il mondo fosse un giardino dove gli uomini, godendosi il sole, conversassero tutti amichevolmente, non ci siederemmo in un angolo a scrivere”. In fondo, questa semplice considerazione del narratore de Il primo libro di Li Po - il poeta vissuto 1200 anni fa (701-762 dopo Cristo) che costituisce insieme a Po Chui, Tu Fu e Wang Wei uno dei messimi classici della poesia cinese - potrebbe bastare a dar un’idea del senso della letteratura.

    Li Po ammirava i paesaggi ed era solito passeggiare tra fertili pianure e montagne boschive: “su ponti oscillanti di legno, passava fra cime di pietra, vedeva strapiombi da cui balzavano le acque urlanti, mentre i banchi di nebbia s’arrampicavano sui fianchi frastagliati. O da alti valichi scorgeva, nelle pianure, laghi verde-azzurri e risaie allagate con le pozze d’acqua luccicanti al sole. Senza scendere dal mulo, a volte prendeva appunti o buttava giù una poesia. O fermata la bestia, schizzava a inchiostro l’impressione che uno scorcio di paesaggio gli faceva.”

  • Confucio
  • Lao Tzu
  • Li Po
  • Po Chui
  • Vittorio Saltini

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La cultura liberale e Radio 3

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   La storia del pensiero liberale è ricca di esempi interessanti di come si possa felicemente coniugare l’azione politica con una civile testimonianza culturale. Da Alexis De Tocqueville a Benjamin Constant, da John Stuart Mill fino a Benedetto Croce e Karl Popper tutti i grandi intellettuali e pensatori liberali tra il XIX e il XX secolo hanno dimostrato di considerare politicamente decisivo il lavoro delle idee e della cultura per difendere e promuovere la propria concezione della società umana. In Italia, tuttavia, già a metà del secolo scorso Mario Pannunzio si chiedeva come mai tante diverse correnti d’ispirazione liberale e democratica - fedeli a una tradizione di grande nobiltà intellettuale e che poteva annoverare tra i propri maestri Camillo Benso di Cavour, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Guido De Ruggiero, Giovanni Amendola e, tra i liberalsocialisti, personalità come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Guido Calogero - abbiano trovato così poca udienza nel nostro paese.

   Ancora nel secondo dopoguerra, secondo Pannunzio, questo fenomeno poteva dipendere dalla pressione di enormi masse che votavano per i cattolici o per i comunisti, e talora perfino per i monarchici o i fascisti. Su un elettorato di una trentina di milioni di cittadini, ventidue milioni di voti andavano infatti a partiti che erano espressione di subculture tanto ben radicate nella storia italiana quanto estranee ai paesi occidentali più progrediti. Ciò nonostante, sebbene questi fossero già allora i rapporti di forza tra i partiti d’spirazione liberale e i partiti di massa, fino alla fine degli anni 80 i liberali, nelle loro varie declinazioni, non avevano mai smesso di attribuire la giusta importanza al lavoro culturale nelle università e nell’editoria, e più in generale alla difesa di quei valori liberaldemocratici che avevano ispirato gran parte della nostra carta costituzionale.

  • Cultura Liberale
  • Radio3

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La quotidiana mancanza dell'onore

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   La quotidiana mancanza è veramente un libro malinconico e obliquo, forse per certi versi anche tragico, in cui si affrontano, con grande coraggio intellettuale, snodi culturali di portata epocale con leggerezza confidenziale e a tratti diaristica. In questo breve ma denso saggio Fabio Bazzani, che ha insegnato per anni Etica e Storia della filosofia morale presso l’Università di Firenze, si misura infatti con la prevalente liquidità categoriale dell’epoca in corso e con l’omologazione delle élite intellettuali che la caratterizza: se infatti “l’imbecillità dei popoli è dato storico costante, l’imbecillità delle élite è fenomeno relativamente recente, peculiarmente tardo-moderno”.

    Il semplificarsi delle competenze richieste oggi per far parte di tali élite non esige più “un cursus honorum fatto di studi, letture, esperienza affinata nelle professioni”. Chiunque può fare il ministro o il professore universitario: basta che sia ben ammaestrato “nella proceduralità con la quale si può soddisfare ai bisogni di quella dinamica. Cambia la soggettività; il soggetto è la procedura in sé”. Nella società di massa tardo-moderna, “nella nuova era della rivoluzione industriale elettronica e telematica”, si sono infatti prima sperimentate e poi consolidate nuove forme di asservimento grazie alle quali i servi sanno sempre meno di essere tali: “le catene non appaiono più e non c’è alcun potere personale che le imponga e, d’altra parte, lo stesso potere personale sussiste solo come residualità storica ridotta a simulacro, a finzione, a vuoto involucro ideologico”.

  • Fabio Bazzani
  • Onore

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Qualche lunga ombra sulla guerra

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    La reazione delle democrazie occidentali e della Nato dopo l’invasione dell’Ucraina è stata compatta e apparentemente decisa, ma questo purtroppo non significa che sia stata anche abbastanza pronta ed efficace. Non solo, ma alcune caratteristiche salienti di questa reazione non possono che lasciare perplessi e indurre a porsi alcuni interrogativi. Per esempio, perché non sono state fornire all’Ucraina tutte le armi che fin dall’inizio chiedeva, concedendone molte solo tardivamente rispetto a quanto era possibile fare? Se lo si poteva fare dopo, perché non lo si poteva fare prima? Perché stabilire il principio che queste armi dovevano non essere in grado di raggiungere il territorio russo, precisando che né gli Usa né la Nato volevano fare una guerra con la Russia? Com’era possibile non fare una guerra con la Russia difendendo in modo efficace l’Ucraina che era sotto un massiccio attacco russo? Come è stato possibile che una coalizione di paesi molto più ricchi della Russia abbiano lasciato senza munizioni l’Ucraina in un momento cruciale del conflitto, mentre l’esercito russo di munizioni ne aveva e ne ha in abbondanza nonostante le sanzioni? Perché nella guerra d’intelligence, ibrida e mediatica Putin sta conseguendo una schiacciante vittoria, riuscendo a dividere profondamente l’opinione pubblica occidentale?

     Queste sono solo alcune delle domande, a dire il vero piuttosto inquietanti, che è legittimo e sensato porsi dopo due anni dall’inizio del conflitto. L'impressione complessiva è che l’occidente, non consentendo all'Ucraina di colpire la Russia sul suo territorio e anzi lasciando che questa potesse controllare il cielo ucraino, sia riuscito a convincere la grande maggioranza del popolo russo, semmai ce ne fosse stato bisogno, che Putin è uno Zar invincibile, convinzione che gli conferisce un vantaggio enorme sull’Ucraina e i suoi alleati, inducendo anche i russi più critici nei suoi riguardi a non intraprendere alcun serio tentativo di ribellione.

  • Guerra
  • Russia
  • Ucraina

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Cosa fare di fronte al ricatto capitale di Hamas?

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    Ci sono molte possibili perplessità e riserve che si possono avere sulla politica di Netanyahu prima del 7 ottobre 2023. Si potrebbe persino avere l’impressione che abbia fatto tutto l’opposto di quello che sarebbe stato giusto, razionale e prudente fare, come cercare d’instaurare rapporti di costruttiva fiducia con l’autorità palestinese, avere un atteggiamento ben più intransigente con certi coloni israeliani in Cisgiordania, adottare più stringenti misure cautelari lungo il confine con Gaza.

    Sarebbe in ogni caso un tema troppo complesso per essere discusso qui, dove è invece realisticamente possibile soffermarci sul problema che in questa fase del conflitto tra Hamas e Israele è più urgente affrontare, e che poi a sua volta coincide con ciò che bisognerebbe avere l’onesta intellettuale di chiedersi: cosa avrebbe dovuto fare un qualsiasi capo di governo che si fosse trovato in una situazione analoga a quella del premier israeliano, a prescindere da eventuali errori commessi in passato e dalla lungimiranza o miopia della sua precedente politica? Come avrebbe dovuto reagire al ricatto capitale di Hamas, che intende usare il sangue palestinese, come suoi esponenti hanno esplicitamente ammesso, per giustificare il suo tentativo di sopprimere lo Stato ebraico?

  • Israele
  • Palestina

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Il lettore, il narrare e gli elenchi del telefono

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   Lo scrittore svizzero Peter Bichsel abitò a Bergen, nelle immediate vicinanze di Francoforte, dopo aver ricevuto il premio “Stadtschreiber von Bergen”. Quando si riceveva questo premio era infatti consuetudine risiedere per un anno in città a spese della comunità, assumendo una funzione pubblica di scrittore. Il lettore, il narrare, raccoglie proprio cinque lezioni tenute da Bichsel nel gennaio e febbraio del 1982, quando abitava a Bergen, nella vicina università di Francoforte.

    La convinzione che emerge nell’arco di tutto questo piccolo libro è che la letteratura nasca soltanto nella letteratura, “dove non esistono iniziatori, ma soltanto imitatori che riflettono. E non è la realtà ad essere imitata, bensì la situazione del narrare”. La letteratura è cioè per Bichsel qualcosa di diverso dalla vita ed entrambe non necessariamente hanno bisogno l’una dell’altra, o almeno non ne hanno bisogno in modo simmetrico e proporzionale.

    A questo proposito l’autore riporta un suo incontro con un vecchio saggio della tribù degli Houssa, nel Sahara, il quale era solito raccontare storie per impedire a sé e agli altri di parlare: “raccontare storie per non dover parlare: anche questa – secondo Bishsel - può essere una delle ragioni dell’esistenza della letteratura”, che “non è la vita. Si può vivere senza letteratura. La letteratura è qualcosa di accessorio. Nella letteratura la lingua assume un’altra funzione che nel parlare. La letteratura può scaturire dall’assenza di parola”.

  • Peter Bichsel

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La posta in gioco e la sonnolenza delle democrazie

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    Una ventina di giorni dopo l’attacco sanguinario del 7 ottobre 2023 in Israele, Mousa Mohamed Abu Marzouk, considerato il numero due di Hamas, ha incontrato a Moscail viceministro degli esteri iraniano Ali Bagheri Kani. La posta in gioco era probabilmente la più alta dall’inizio del secondo conflitto mondiale e lo scenario geopolitico non era poi molto diverso. I più pericolosi regimi politici del pianeta sapevano bene di trovarsi di fronte a un’occasione preziosa per infliggere una ferita profonda alle democrazie occidentali.

   Lo stretto legame che sussiste oggi tra Hamas, l’Iran e la Russia, con la Cina nel ruolo di spettatore interessato all’evoluzione degli eventi e incline ad assecondare i loro piani, pone in discussione l’intero ordine mondiale. L’alternativa non è tuttavia, come Mosca e Pechino vorrebbero far credere, tra un mondo unipolare e un mondo multipolare, ma tra un mondo organizzato sotto la supervisione dei paesi democratici, ovvero i cui i popoli sono in condizione di controllare l’operato dei rispettivi governi e d’influenzarne le decisioni, e uno gestito da dittature in cui questo controllo non è possibile.

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Conversazioni d'amore in una stanza vuota

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   Era mai stato felice Evgenij Petrovič? Sì, lo era stato molto, ma da tempo non lo era più. Da quando la donna che aveva amato era scomparsa lui si aggirava nella sua vita senza una meta e la successione metodica delle sue giornate pareva sospesa sopra la membrana sottile di un senso arcano, su una superficie piatta e scivolosa dove non c’era più spazio per alcuna percezione piena della propria esistenza.

    Il protagonista di questo lungo racconto, o breve romanzo, di Nina Berberova - la scrittrice russa nata San Pietroburgo nel 1901 e morta a Filadelfia, negli Stati uniti, nel 1993 – è una persona a tratti spaesata, incapace di cambiare, di vivere come gli altri, e in cerca di un centro per la propria anima. Per emigrare da Parigi negli Stati Uniti cerca di vendere due orecchini, ma una delle due perle è intaccata da un “male nero” che ne abbatte drasticamente il valore. Per racimolare il denaro necessario per partire decide allora di condivide la stanza che ha in affitto con Alja Ivanova, una ragazza che balla all’Empire.

   Il viso di Alja “formava un ovale perfetto e il collo risultava un po’ troppo lungo”; aveva capelli lisci e orecchie strette, un colorito piuttosto pallido, che emanava una certa purezza. Gli occhi e il sorriso non erano mai ambigui e tutto il suo essere “comunicava limpidezza”. Anche il suo corpo, in cui ogni muscolo era ben allenato a causa del suo lavoro, assomigliava al suo viso: “era puro, lindo e vagamente etereo”, e quando il suo profilo era chinato sulla pagina di un libro, mentre con la lunga mano magra si ravviava i capelli, la sua presenza nella stanza dove convivevano lo rendeva stranamente felice.

  • Nina Berberova

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La voce negli occhi e gli abbracci perduti del cuore

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   Se Orfeo non si fosse voltato e se la vita potesse continuare oltre ogni apparente morte? O se alla fine ci fosse davvero, come si chiede Fernando Pessoa, “qualcosa così, come un perdono”? Forse allora questi racconti penetranti e dolenti di Laura Guidugli non sarebbero stati necessari per svelare, una volta di più, che proprio lì, in quanto non rimane, nell’ombra di una perdita definitiva o di qualcosa che finisce senza una ragione plausibile, viene conservato, come in uno scrigno, il senso di ogni esistenza.

    Laura Guidugli - docente di letteratura (al Liceo “Majorana” di Capannori) destinata a lasciare sempreverdi e care memorie tra i suoi studenti per la sua palese confidenza con tutto quanto è umano - in questa silloge di racconti, (Abbraccia dove sei, peQuod editore) narra con limpido sguardo dell’eterno litigio tra la terra e il cielo, di quanto s’insinua tra le attese che aprono squarci improvvisi di vita, tra baci fugaci, abbracci notturni e insonni rammendi di sposi. Queste storie straordinarie e comuni, scavate da dita lievi che trattengono il piacere quasi tattile di assaporare ogni dettaglio, sono percorse da una trina sottile di esitazioni e scoperte.

  • Laura Guidugli

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