Theodor W. Adorno considera la convinzione che Beethoven sia più comprensibile di Schönberg un “inganno” e pensa che quanti sono scandalizzati dalle dissonanze siano in realtà spaventati da se stessi: è unicamente per questo che le dissonanze riescono loro insopportabili. In Filosofia della musica moderna (Torino, 1969 e 2002, Einaudi editore) il filosofo francofortese, al quale si deve forse più che a ogni altro la giustificazione teorica della musica dodecafonica, equipara coloro che s’indignano dinanzi alla nuova musica a chi tratta il classicismo viennese come un prodotto di consumo qualsiasi, al pari di “ninnoli casalinghi. In realtà un ascolto adeguato di quegli stessi pezzi di cui l’ometto della metropolitana fischietta i temi, esige uno sforzo ancora maggiore che non la musica più avanzata: e cioè quello di togliere di mezzo la vernice di falsa esibizione e di formula reazionaria ristagnate col tempo”.
L’equiparazione da parte di Adorno di quanto di musicale viene ancora oggi, dopo uno o più secoli, ascoltato da molti con grande trasporto a dei “ninnoli casalinghi” ha tuttavia il sapore di un elitarismo mascherato da sortilegio dialettico e non pare esente da una certa arroganza teorica. Quest’impressione può trovare una qualche conferma nel fatto che Adorno fa propria la tesi di Clement Greeberg secondo cui l’arte può essere distinta “in falsità e avanguardia”, dove ciò che s’intende per “avanguardia” viene a coincidere con l’unica possibile via autentica, mentre tutte le altre opzioni vengono relegate a manifestazioni culturali false e reazionarie. Si tratta ovviamente di una tesi estrema e forse in parte provocatoria, ma utile per evidenziare l’essenziale autoreferenzialità della posizione di Adorno, che riduce qualsiasi critica alla nuova musica ad una sostanziale incapacità di comprenderla, quando non a una vera e propria malafede intellettuale.
Leggi tutto: Theodor W. Adorno, Ernest Ansermet e la musica nuova
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi fu un classicista sui generis: legato all’esperienza della riviera ligure accanto a Angiolo Silvio Novaro, senza essere un tipico rappresentante del mondo ligustico, prefigurò un paesaggio ‘esistenziale’ cui avrebbero in seguito attinto anche Sbarbaro e Montale. Nato a Genova il 6 gennaio del 1871, coltivò con cura il verso carducciano rivelando un certo gusto per l’imitazione dei suoi modelli lirici prediletti. Si misurò con la lezione stilistica di Leopardi e dimostrò un certo eclettismo, cercando nella letteratura anche delle gratificazioni storiche e personali. Pur trovando conforto nella tradizione la sua fu anche una poesia impegnata a manifestare il proprio dissenso con la società del suo tempo.
Da ragazzo s’innamorò perdutamente della figlia di un rivenditore di fruste, di peperoni e di fulminanti. Poiché la fanciulla non lo corrispose, caricò una vecchia pistola e si sparò al cuore. Riuscì a salvarsi, portando però per tutta la vita le tracce delle ferite mal rimarginate. Si sposò poi, nel 1901, con Francesca Giovannetti, una ragazza di Sant’Anna a Pelago, senza essere mai pienamente accettato dalla sua famiglia. Ebbero un figlio, Tristano, che fu afflitto da persistenti malattie e fu grande causa di apprensione per entrambi i genitori.
Leggi tutto: L'eco di un lamento che ancora risuona
Qualcuno pensa che la scuola sia sempre stata così, come molti studenti oggi la percepiscono: stressante, ansiogena e frustrante. Anzi, alcuni ritengono che la scuola lo fosse di più in passato e che prima del 1968 ci fossero ancora maggiori difficoltà e motivi di stress, difficoltà che oggi gli studenti non sono più pronti ad affrontare perché sono un po’ viziati, poco abituati a studiare e darsi da fare. In ogni caso, vera o falsa che sia questa tesi, che ci siano delle notevoli differenze è abbastanza chiaro a tutti.
Luca Ricolfi, per esempio, in articolo che si può leggere per intero sul sito della Fondazione Hume, di differenze ne individua una importante: “negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.”
Ricolfi ha in buona parte ragione. Ma da cosa proviene questa incompetenza linguistica? E più in generale, questa differenza tra gli anni 60 e oggi dipende davvero da qualche rinuncia della scuola media o è dovuta piuttosto a una tipologia di studenti e docenti molto diversi? L’habitat culturale in cui viveva uno studente liceale di un liceo classico negli anni 60 è lo stesso di oggi? Il tipo di nutrimenti letterari e cinematografici, musicali, sociali e politici sono gli stessi? Oppure il tempo che in quegli anni si passava a leggere classici, a discutere di politica, o a frequentare un affumicato cineforum dove magari proiettavano Pabst o Dreyer, oggi è stato trascorso dagli studenti attuali a vedere discutibili film commerciali, pieni spesso di una violenza gratuita e di effetti speciali fine a se stessi, a giocare alla play station e a chattare sui social? E non occorre scomodare Pabst o Dreyer: se fino a una ventina di anni fa capitava ancora che una buona percentuale di studenti in ogni classe delle superiori avesse visto un film di Charlie Chaplin o Vittorio De Sica, oggi questa evenienza è un’assoluta rarità, così come lo è incontrare studenti liceali che abbiano ascoltato per intero e dal vivo un brano di Mozart o Beethoven, o che abbiano letto un classico che non studiano a scuola, per libera scelta e curiosità, e non perché parte di un programma e indotti a farlo dal proprio insegnante.
Leggi tutto: Sul merito e le sue declinazioni
-
-
Gli scritti di Gaetano Salvemini raccolti con il titolo Sulla democrazia sono testi relativi a conferenze tenute negli Stati Uniti tra il 1934 e il 1940, quando Salvemini era docente alla Harvard University, ma sembrano per molti versi scritti qualche giorno fa. La democrazia consiste per Salvemini, come si evince dalla prima di queste conferenze, del 1934, in tre diversi gruppi d’istituzioni: uno che garantisce “i diritti individuali del cittadino, come habeas corpus, libertà di pensiero, libertà di culto, libertà di educazione, libertà di movimento, libertà di lavoro”; un altro gruppo che garantisce “le libertà politiche del cittadino, come libertà di parola, libertà di stampa, libertà di associazione e di riunione”; e infine in una terza componente, potremmo dire di garanzie istituzionali democratiche, che consistono nella possibilità di cambiare il partito al potere attraverso libere elezioni: “i cittadini che non condividono le opinioni del partito al potere hanno il diritto di esporre pubblicamente le ragioni del loro dissenso e di formare partiti di opposizione il cui scopo è il rovesciamento del partito al potere”.
L’esistenza di una competizione è infatti “una caratteristica essenziale di una costituzione democratica. La libertà politica è sostanzialmente il diritto del cittadino di dissentire dal partito al potere”. Da questo diritto nascono infatti per Salvemini “tutti gli altri diritti del cittadino”. Nelle dittature si verifica invece la circostanza opposta: “il diritto di opporsi al partito al potere è soppresso” e i partiti di opposizione sono considerati “organizzazioni criminali”. Nei regimi dittatoriali, infatti, i diritti dei cittadini e le loro libertà politiche sono “alla mercé del partito al potere”.
A volte per designare dei sistemi non democratici, cercando di mascherarne la natura dispotica e dittatoriale, si inventano termini nuovi. Con il fascismo avvenne secondo Salvemini qualcosa del genere: all’inizio infatti il termine “fascista” non trasmetteva nessuna idea chiara sulla costituzione politica auspicata. Se il fascismo si fosse presentato sotto una denominazione tradizionale, e quindi come un’autocrazia o una tirannide, avrebbe subito perso gran parte della sua capacità di attrarre consensi, ma mascherando la sua reale visione politica e i suoi progetti sotto una nuova denominazione dal significato poco chiaro riuscì a convogliare su di sé attenzioni, speranze e consensi in modo trasversale e diffuso.
Leggi tutto: Gaetano Salvemini e le insidie attuali per la democrazia
Il libro di Erik Gobetti E allora le foibe è ricco di considerazioni interessanti e in parte condivisibili, anche se al prezzo di voler talora fronteggiare, seppur con dati indubbiamente utili alla ricostruzione della vicenda, delle tesi che l’autore individua come falsi obiettivi polemici. Nel perseguire quest’intento, pur essendo una buona fonte d’informazioni e di analisi su alcuni aspetti, risulta omissivo su almeno due questioni centrali: quella relativa alle modalità specifiche con cui vennero uccisi gli infoibati e il lungo oblio sulla loro sorte.
Ma procediamo con ordine. Gobetti ricorda giustamente che il regime fascista aveva imposto “l’uso obbligatorio della lingua italiana nei luoghi pubblici e persino nelle chiese (con il Concordato del 1929)”, che aveva italianizzato “forzatamente nomi, cognomi e toponimi”, ordinato “la chiusura delle scuole, delle associazioni e dei luoghi di ritrovo sloveni e croati. Oltre alla minaccia portata alle identità nazionali, la politica fascista aveva anche comportato “un generale impoverimento della popolazione slava, esclusa dai posti di potere, da molti impieghi pubblici e svantaggiata in ogni contesto lavorativo.” Ma non ci fu solo questo: sull’isola di Arbe/Rab, per esempio, a poche miglia marine da Fiume, vennero “internate in totale, nell’arco di circa un anno, dall’estate del 1942 al settembre del 1943, 30.000 persone”, di cui almeno 1500, in gran parte donne e bambini, morirono per fame, inedia ed epidemie.
Leggi tutto: Il ricordo delle foibe, tra omissioni e oblio
Esistono edizioni di classici della letteratura in versione ridotta nelle maggior parte delle lingue. Si tratta per lo più di versioni per le scuole che in genere sono completamente riscritte, e a volte riscritte piuttosto male, da cui emerge in sostanza la trama delle opere condita da qualche descrizione banalizzata dei personaggi e degli ambienti. Sia nelle discipline linguistiche, sia talora anche in lingua italiana, nel tentativo di familiarizzare i giovani lettori con i capolavori della letteratura vengono talora propinati agli studenti rifacimenti scolastici e privi di alcun rilievo letterario con la motivazione che sarebbero più accessibili in rapporto alle competenze linguistiche degli alunni.
La motivazione potrebbe forse essere valida se non esistessero dei bei testi e dei classici comunque accessibili anche in versione integrale, o edizioni integrali corredate da note che le rendono fruibili a chi sta studiando una certa lingua e una certa storia della letteratura, ma siccome queste alternative sussistono da tempo l’unica possibile spiegazione è che alcuni docenti delle nostre scuole siano totalmente indifferenti ai veri motivi per cui I promessi sposi sono I promessi sposi, I tre Moschettieri I tre Moschettieri e il Don Chisciotte il Don Chisciotte, tanto per fare solo degli esempi. Ovvero, molti docenti dimostrano d’ignorare, o comunque manifestano una sostanziale indifferenza, per le qualità propriamente letterarie di molti capolavori su cui fanno lezione ogni anno.
Alcuni di questi vengono così riproposti dopo aver sciaguratamente sostituito la loro prosa con altre al cospetto mediocremente posticce e lasciando quasi intatte trame e intrecci narrativi, che costituiscono soltanto lo scheletro di ogni romanzo. Sarebbe un po’ come se, per far apprezzare la bellezza o la sensualità di Marilyn Monroe ai giovani - che quasi mai hanno avuto occasione di apprezzare in qualche film, perché a scuola si considera culturalmente irrilevante la storia del cinema - si facesse loro esaminare accuratamente il suo scheletro.
Leggi tutto: Lo scheletro sexy di Marilyn Monroe
La rivoluzione dimenticata di Lucio Russo fu pubblicata per la prima volta nel 1996. L’ultima edizione, la dodicesima, è del 2021. Da allora, il quadro delle conoscenze sul pensiero scientifico ellenistico, che costituisce l’argomento principale del saggio, è notevolmente cambiato. La nuova edizione del libro di Russo, tenendo conto di queste nuove acquisizioni e di alcuni nuovi lavori specialistici, costituisce una revisione di cui alcune congetture dell’autore che si sono poi trasformate in tesi ampiamente documentate.
L’utilità del termine “scienza” consiste per Russo nel consentire di distinguere la stessa conoscenza scientifica da altri tipi di conoscenza. Ma quali sono le caratteristiche essenziali della conoscenza scientifica? Intanto, le sue affermazioni “non riguardano oggetti concreti, ma enti teorici specifici. Alcuni esempi di enti teorici sono gli angoli e i segmenti della geometria o la temperatura e l’entropia della termodinamica”.
In secondo luogo, “una teoria scientifica ha una struttura rigorosamente deduttiva; è costituita cioè da pochi enunciati fondamentali (detti assiomi, postulati o principi) sui propri enti caratteristici e da tutte le affermazioni che si possono considerare come loro conseguenze”.
In terzo luogo, “le applicazioni al mondo reale sono basate su regole di corrispondenza tra gli enti della teoria e gli oggetti concreti. Le regole di corrispondenza, a differenza delle affermazioni interne alla teoria, non hanno alcuna garanzia assoluta. Il metodo fondamentale per controllare la validità delle regole di corrispondenza, cioè l’applicabilità della teoria, è il metodo sperimentale”.
Leggi tutto: La scienza spiegata dalla sua storia
Sulla vita, la personalità e l’opera di Sylvia Plath è stato recentemente ripubblicato un libro di Leonetta Bentivoglio, scrittrice e giornalista culturale di Repubblica, che sembra scaturito da conversazioni immaginarie; sicuramente irrealistiche alla luce dei decenni che separano la vita dell’autrice da quella della poetessa americana, ma che possono sembrare il frutto di una frequentazione amichevole e profonda, e persino di confidenze condivise. In Sylvia Plath. Il lamento della regina (2022, Edizioni Clichy), la Bentivoglio pare infatti raccontare le vicende dell’anima di una sua amica eterna e lo fa con ritmo serrato, attraverso una densa scansione di momenti cruciali, di testi poetici e frammenti diaristici, e con un’intensità narrativa che riesce quasi a dissolvere il tempo che intercorre tra le loro vite.
Due giorni dopo il primo tentativo di suicidio Sylvia Plath viene ritrovata in garage agonizzante, ma ancora viva, dal fratello Warren. Affidata alle cure di un giovane psichiatra, dovrà imparare di nuovo a leggere e a scrivere. A fine gennaio del 1954, dopo essere stata curata anche con degli elettroshock, è dichiarata guarita. Può così rientrare allo Smith College, dove sceglie, come argomento della sua tesi di laurea, la figura del doppio nei romanzi di Dostoevskij.
Nel gennaio del 1955 consegna la tesi, intitolata The Magic Mirror: A Study in the Double in Two of Dostoevsky’s Novels. Il tema del doppio e dello specchio, la sua presenza invasiva sul fondo della sua anima, l’accompagnerà per tutta la vita, di cui ripercorrerà i momenti cruciali in the Poem for a Birthday: il rapporto con i genitori, il tentato suicidio, gli elettroshock, il matrimonio con Ted Hughes, un poeta di un certo fascino e successo, con cui si sposerà il 16 giugno 1956, la nascita dei figli e poi la separazione.
Leggi tutto: Il lamento cromatico di una regina stregata
Joseph Ratzinger è stato recentemente definito da Massimo Cacciari, in un’intervista a l’Avvenire del 6 gennaio 2023, “un intellettuale europeo al mille per cento”. Secondo Cacciari, Ratzinger considera “legittimo e giusto il legame che si opera fin dai primi secoli del cristianesimo tra la filosofia greca e il Vangelo. È un legame che non si sovrappone al Vangelo ma che in qualche modo nasce dal Vangelo stesso, che si impone a partire da quel messaggio. Questo è il discorso intorno a cui dibatte la teologia e dell’Otto e Novecento a partire dall’idealismo tedesco, cioè tutta quella tradizione a cui Ratzinger appartiene anima e corpo”. Cacciari sostiene dunque che per Ratzinger “è proprio della fede rapportarsi con il logos, immanente all’atto di fede e che deve tendere alla verità esattamente come l’atto di fede”
Se per Ratzinger è essenziale per la fede rapportarsi al Logos, non è meno essenziale per il Logos, per la Ragione, rapportarsi alla fede. Nella famosa conferenza tenuta a Ratisbona il 12 settembre 2006, Papa Benedetto XVI sostenne che una ragione sorda al divino “è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture”. Il saper ascoltare “le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza”, mentre il rifiutare pregiudizialmente di farlo implicherebbe una riduzione inaccettabile della nostra stessa capacità ascoltare, rispondere e ragionare. Concetti simili saranno poi ripresi nell’enciclica Spe Salvi, nella quale il Papa da poco scomparso ribadì la limitatezza della sola ragione senza fede e una ferma condanna dell’illuminismo: “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.
Leggi tutto: Piero Martinetti e il dialogo eterno tra ragione e fede
Benedetto Croce sosteneva che quando si perde la capacità d’indignarsi tutto è finito. Quest’affermazione è particolarmente appropriata per i giornalisti o gli scrittori, e per gli intellettuali in genere. “Vittima di ogni attualità possibile”, come si definì nei suoi giorni estremi, Giovanni Arpino considerò la contemporaneità il sale della propria vita, ma seppe sempre esercitare con maestria l’arte sottile di manifestare la sua indignazione rispetto a quanto accadeva intorno a lui in modo argomentato, pungente, gentile e intelligente. Negli anni del boom economico, quando tutto, o quasi, sembrava filare per il meglio e un certo diffuso ottimismo veleggiava per le strade, le spiagge e gli stadi di calcio, fu una voce spesso dissonante, poco incline ad assecondare acriticamente mode culturali o di costume.
In queste Lettere scontrose, (e una risposta, quella di Totò) si dimostra in particolare un grande ritrattista, in grado di restituirci gran parte della sapidità di quegli anni, ovvero del biennio 1964-1965, quando queste lettere furono scritte su Tempo, il settimanale diretto da Arturo Tofanelli, rivelando una volta di più, oltre a una certa spigolosità del proprio carattere, anche la sua finezza psicologica e la grande qualità letteraria della sua prosa.
Arpino scrive a vari protagonisti di quegli anni, attivi in campi assai diversi: dalla politica, al cinema e al calcio. Tra le lettere inviate ai politici, quella destinata a Ugo La Malfa è forse una delle più efficaci e utili per comprendere anche le presenti circostanze patrie, che hanno più di qualche punto in comune con quelle di allora. Arpino si sofferma infatti sulle “congreghe d’inquisitori” che si stavano formando in Italia durante gli anni 60 e che prima o poi avrebbero deciso di “bruciare gli intelligenti rimasti, come mostri pericolosi, asociali, contagiosi”. Forse l’intelligenza stava “diventando un vizio, una mostruosa verruca, che l’uomo, per essere felice e candido e leggero e utile a se stesso”, doveva “sapersi strappare dalle carni” e forse l’avvenire del mondo non dipendeva più “dall’intelligenza, ma da una pace idiota e infantile del cervello”.
Leggi tutto: 52 ritratti d'autore in 52 "lettere scontrose"
Lo scrittore francese Christian Bobin è venuto a mancare da poco più di un mese, esattamente il 24 novembre 2022. Era nato a Creusot, in Borgogna, il 24 Aprile 1951 e lì, nella sua casa di campagna, ha trascorso tutta la sua vita. Ci piace ricordarne qui l’opera parlando di un suo piccolo libro che trova in Mozart e nella pioggia il proprio saliente pretesto, l’occasione preziosa colta dall’autore per raccontare al lettore anche il proprio rapporto con la letteratura.
Quasi tutti i libri di Bobin sono “piccoli”, forse perché tutta la sua opera è attraversata da un desiderio di semplicità e di chiarezza, ovvero del tratto principale della musica di Mozart, le cui grandi arie fanno luccicare le note come le foglie di un albero “sotto la benedizione di una pioggia d’estate”. Quello della chiarezza è infatti per Bobin “il più bel dono che possiamo ricevere in questa vita tenebrosa”, ma non si tratta di un dono innocuo, perché talvolta può trafiggerci come un dardo fatale, può illuminarci o ferirci con la stessa disinvoltura, probabilmente perché tutto ciò che ci parla in modo chiaro della vita è anche un’agnizione della morte.
Leggi tutto: Christian Bobin, la pioggia e la musica di Mozart
Ricordi di scuola di un insegnante
Arriva l'1 lungo e secco, poi il 2 con le ciabatte, sembra il 3 un bel gobbetto, e il 4 una seggiolina, pare il 5 un'orecchietta, e il 6 ha un gran pancione… così recitava il sussidiario, e cosi appresi a scuola i primi numeri. Probabilmente tutti abbiamo dei ricordi della scuola: ricordi radi e irregolari, nitidi o vaghi, gioiosi e dolorosi. E tra questi ricordi ci sono quelli degli insegnanti, dato che certe impressioni legate ai più significativi ci accompagnano poi per tutta la vita.
Quel tipo di scuola che io ricordo non esiste più. In quella scuola erano davvero importanti poche cose, che solo in piccola parte si potevano insegnare: l'avere a cuore i propri studenti e amare le proprie discipline, non stancarsi di voler conoscere sempre meglio entrambi e il desiderio di riuscire a trasmettere ai primi il proprio amore per le seconde. Ma ancora oggi, nonostante i molti cambiamenti, tra le persone decisive che si possono incontrare nella vita ci sono i propri insegnanti. A volte maestri di vita, altre volte figure che turbano ancora i nostri sogni, educatori illuminanti o sadici diseducatori, talora ombre fluttuanti e sbiadite, non esiste probabilmente vita che non risenta più o meno marcatamente della loro influenza. Parlare di quelli che hanno inciso sulla nostra esistenza in maniera positiva è un modo di ricordarli, un modo per manifestare loro, anche a distanza di molti anni, una sincera gratitudine, e non parlare di altri una forma di pietà.
Leggi tutto: Cari maestri, cari professori
Quando Percy Bysshe Shelley salpò dal porto di Livorno a bordo della sua imbarcazione, il Don Juan, per recarsi a Lerici era l’otto Luglio del 1822. Durante quell’estate particolarmente calda ebbe così inizio il suo ultimo viaggio e la storia del suo naufragio. Il suo corpo, già in stato di putrefazione, fu ritrovato sulla spiaggia di Viareggio e venne riconosciuto solo perché aveva ancora in tasca un volume delle poesie di John Keats. George Gordon Byron e altri amici assistettero sul posto alla cremazione del corpo di Shelley pensando alla grandezza e alla desolazione che quei luoghi gli avevano sempre ispirato e videro il suo cadavere aprirsi davanti ai loro occhi fino a scoprire il cuore.
A Viareggio, non lontano dal molo, una grande piazza alberata è ancora intitolata al poeta, che pare fosse solito passare ore a osservare le lucciole. Così almeno riporta Leigh Hunt in una lettera, e una notte a questo caro amico del poeta venne da chiedersi se qualcuna delle particelle che aveva lasciato sulla terra non alimentasse la loro leggiadra e amorevole luce.
Ma gli inglesi che vissero a lungo in Toscana e che manifestarono ammirazione o amore per questa regione costituiscono una lunga e variegata scia della quale il recente libro di Paolo Fantozzi, (Anglo-Toscana, Apice libri) ci permette di assaporare l’alone. Mary Shelley rimase a lungo in Toscana dopo la morte del marito, innamorandosi della sua lingua, dei suoi costumi e della sua letteratura, orbitando principalmente tra Pisa, Livorno e Firenze e facendo lunghe passeggiate a cavallo tra S. Giuliano e Vicopisano. Nel proporre l’opera di sua moglie a un editore londinese Percy Bysshe Shelley sottolineò che “tutti gli usi, i costumi, tutte le opinioni del tempo vi trovano luogo, tutte le superstizioni, le eresie, le persecuzioni religiose vengono rappresentate”.
Leggi tutto: Scrittori inglesi e americani nel cuore della "patria della bellezza"
Solitamente si definiscono società autocratiche quelle non pienamente democratiche, ovvero quelle più o meno compiutamente totalitarie. Tra queste se ne possono distinguere due tipi: quelle che, pur ammettendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, anche quando con la partecipazione o la supervisione dello Stato, non sono annoverabili tra le liberaldemocrazie; e quelle comuniste.
Le prime, pur consentendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, non garantiscono a tutti i loro cittadini l’esercizio di quelle fondamentali libertà e di quei diritti civili e politici che sono loro riconosciuti come inalienabili in ogni Stato autenticamente democratico. Una simile combinazione di queste due caratteristiche si è verificata in passato solo nei regimi di tipo fascista. Nelle società comuniste invece la proprietà privata dei mezzi di produzione non è ammessa e su questo punto sia Marx sia i marxisti ortodossi successivi sono stati chiari e perentori. L’esistenza delle classi sociali dipende infatti proprio da questa prerogativa e il comunismo è la società per definizione senza classi.
Leggi tutto: Il fascismo delocalizzato e l'autodenigrazione dell'occidente
In un articolo apparso sulla rivista giuridica Massimario di Giurisprudenza del lavoro nel 2019, il professor Carlo Pisani, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Roma Tor Vergata, sostiene che la legge sul reddito di cittadinanza, oltre ad essere farraginosa, ipocrita e poco efficace, non sia costituzionale. L’articolo 1 del decreto legge del 28 gennaio 2019 considera infatti il reddito di cittadinanza una “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro”, ma nel nostro ordinamento la dignità del lavoro è “materia molto seria e delicata” e sarebbe meglio trattarla “con attenzione, senza pressapochismo o, peggio, strumentalizzazioni a fini elettorali”.
A differenza di quanto accadeva con lo Statuto Albertino o con altre Costituzioni europee di fine Settecento e Ottocento, la nostra Costituzione annovera il lavoro “tra i fondamenti del nuovo Stato”. Non a caso, la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che il lavoro “non rappresenta solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma è altresì un mezzo di estrinsecazione della personalità”. In breve, la nostra Costituzione considera la dignità dell’uomo che lavora come “un valore assoluto che permea di sé tutto l’ordinamento e che va al di là del tipo di attività svolta”.
Il professor Pisani ricorda inoltre che “nel nostro ordinamento il lavoro, come mezzo di realizzazione della persona e come una delle componenti della sua dignità, deve essere incentivato o, comunque, sicuramente non può essere disincentivato né dallo Stato, né dal Legislatore. Una legge che finisca per avere obiettivamente questa finalità, al di là delle roboanti dichiarazioni di principio, rischia di essere incostituzionale per violazione degli artt. 3, 4 e 35” della Costituzione. Ma su quali basi si può sostenere che una tale legge disincentivi il lavoro o la sua ricerca? Secondo Pisani in virtù del fatto che “per percepire l’equivalente netto previsto per il reddito di cittadinanza, circa 780 euro esentasse mensili, un dipendente inquadrato in un livello medio deve lavorare circa cinque ore per cinque giorni alla settimana per quattro settimane”; e che “deve invece lavorare circa otto ore al giorno per cinque giorni a settimana con inquadramento medio alto, il dipendente che voglia percepire una retribuzione netta equivalente alla misura massima a cui può arrivare il reddito, e cioè a 1.600,00 euro esentasse al mese (se nella famiglia ci sono minorenni: art. 3, comma 1, lett. a), che richiama l’art. 2, comma 4). Invece il beneficiario del reddito di cittadinanza deve (tranne le non pochissime esclusioni) assicurare la disponibilità per sole otto ore settimanali, aumentabili ‘al massimo’ a sedici, però solo con il consenso del destinatario (art. 15)”.
Leggi tutto: Il reddito di cittadinanza è anti-costituzionale?
I saggi raccolti ne Il diritto e il rovescio sono stati scritti nel 1935 e nel 1936, quando Albert Camus aveva 22 anni. Secondo Brice Perain questo libro contiene quello che lo scrittore franco-algerino ha prodotto di meglio e Camus pensa che contenga più amore di qualsiasi altro suo scritto. Si tratta di cinque brevi racconti, intensi ed esemplari, privi di qualsiasi orpello letterario. Anche la prefazione dell’autore costituisce una sorta di confessione purissima ed essenziale, dalla quale traspare che il loro autore davvero non invidia nulla ed è capace d’ignorare le invidie degli altri.
Camus dichiara di aver conosciuto la paura e lo sconforto, ma mai l’amarezza. Fin da giovane ha sempre cercato di rispettare una sua massima personale secondo la quale “i propri principi occorre metterli nelle grandi cose”, mentre “per le piccole è sufficiente la misericordia”. Un lieve distacco dagli interessi umani lo ha sempre tenuto lontano dal risentimento. Come artista, ha cominciato a vivere nell’ammirazione, mentre già al tempo dei suoi esordi era un costume diffuso iniziare la carriera demolendo qualche altro scrittore. Le sue passioni non sono invece mai state contro qualcuno e ha a sempre amato le persone che avvertiva come migliori di lui.
Nella prefazione a questa silloge, Camus racconta anche che la sua ispirazione nasceva in quegli istanti esclusivi in cui l’immaginazione faceva tutt’uno con l’intelligenza, istanti che poi se ne andavano lasciando il campo alla lunga sofferenza dell’esecuzione. In un’atmosfera narrativa in cui la solitudine di ognuno sembra accomunare ciò che la società separa, la stessa solitudine finisce coll’assumere le sembianze di un paradiso, che si rivela però attraverso la disperazione. “Non c’è amore di vivere senza disperazione” – scrive Camus in queste pagine – e al tempo della loro stesura non sapeva ancora a che punto stesse dicendo il vero. Quando giunsero i tempi della disperazione rischiarono di distruggere in lui tutto, “tranne per l’appunto la fame disordinata di vivere”, perché la sua anima assomigliava a “un fuoco che soffre se non divampa”.
Leggi tutto: L'anima di un viaggiatore solitario
La traduzione in italiano dei Quaderni di tutto e nulla di Macedonio Fernández (per Prospero editore, a cura di Irina Bajini) è di buon auspicio: consente infatti di sperare che uno degli scrittori e dei pensatori più originali dell’America latina, maestro e amico di Jorge Luis Borges, sia finalmente conosciuto anche in Italia come in molti altri paesi del mondo e come da troppo tempo merita.
Le traduzioni di opere letterarie di Macedonio in Italia sono state infatti fino ad oggi piuttosto rare: la più recente, presso l’editore Castelvecchi (dopo la prima e storica per il Melangolo, del 1992), è quella del Museo del Romanzo della Eterna; ma bisogna andare indietro con gli anni per trovarne una di qualche racconto: una breve raccolta fu pubblicata nella Biblioteca blu di Franco Maria Ricci, a cura di Marcelo Ravoni, col titolo La materia del Nulla.
Leggi tutto: Dalla certezza d'essere alla sua estinzione e ritorno
L’ultimo saggio di Lorenzo Infantino (Cercatori di libertà, Rubbettino Editore) prende spunto dalla convinzione che una civiltà non sia in grado di prevedere il proprio progresso. Questa circostanza dovrebbe indurci a una maggiore modestia e a una più cauta fiducia nelle leggi della storia. Si tratta a ben vedere di una concezione antistoricista già enucleata in modo articolato da Karl Popper, ma che Infantino sviluppa attraverso un percorso critico originale e ricco di spunti utili per approfondimenti ulteriori. Particolarmente interessante è la prima parte del saggio, che è caratterizzata da un confronto tra la visione politica di Hume e quella di Rousseau, con una dettagliata ricostruzione storica della loro relazione umana e culturale.
Fu per prima Mme de Boufflers a chiedere a Hume di ospitare Rousseau in Inghilterra, anche per evitargli d’incorrere negli effetti di un mandato di cattura spiccato a suo carico dopo che l’Émile era stato condannato al rogo. Raggiunto da un messo che lo avvertiva del suo imminente arresto, Rousseau si vestì di fretta e dopo aver pensato in un primo momento di rifugiarsi a Ginevra ci ripensò e decise di recarsi in Inghilterra da Hume. Ma alcuni mesi dopo, in seguito ad una burla che urtò la sua suscettibilità, i loro rapporti iniziarono a deteriorarsi progressivamente, così da portare meglio alla luce anche le profonde differenze tra le loro concezioni filosofiche e politiche.
Quanto arriverà a pensare Hume di Rousseau “non è diverso da quello che pensavano gli Enciclopedisti. Già in una lettera inviata a Mme de Boufflers il 23 gennaio del 1763, lo scozzese aveva affermato: ‘ci sono ragioni per sospettare che egli scelga i suoi temi, più che per convinzione, per il piacere di mostrare la sua inventiva e sorprendere il lettore con i suoi paradossi’ ”.
Prima di Hume, già Voltaire si era espresso criticamente nei confronti del pensatore ginevrino, senza fargliene mistero. Come ricorda ancora Infantino, dopo aver avuto una copia del Discours sur l’inégalité parmi les hommes, Voltaire “aveva scritto a Rousseau (30 agosto 1755): ‘Ho ricevuto, signore, il vostro nuovo libro contro il genere umano, vi ringrazio […]. Non è stata mai spesa tanta ingegnosità per renderci simili alle bestie. Quando si legge la vostra opera, viene voglia di camminare a quattro zampe’. Voltaire aveva poi aggiunto: ‘Tuttavia, poiché è da più di sessant’anni che ho perduto tale abitudine, sento che mi è impossibile riacquistarla’; e ancora: ‘Non posso più imbarcarmi per andare a trovare i selvaggi del Canada’, perché le ‘malattie a cui sono condannato m’impongono di avere disponibile un medico dell’Europa […], mi limito a essere un tranquillo selvaggio, nella solitudine che ho scelto vicino alla vostra patria’ ”.
La fine ironia di Voltaire può aiutare a comprendere meglio anche quell’irriducibile contrapposizione tra Hume e Rousseau che coinvolge molti grandi temi della riflessione filosofica illuminista, come lo stato di natura, il contratto originario, la proprietà privata, la natura del denaro o delle arti. Hume rifiutava “l’idea di un inizio della società” e non esitava “a considerare lo stato di natura ‘come una semplice finzione, non diversa dall’età dell’oro inventata dai poeti’ ”. Ma non solo: era anche convinto che le regole della morale non fossero “conclusioni della nostra ragione” e che quindi non ci fosse “una scienza del Bene e del Male”; il che è, secondo Infantino, “l’acquisizione che sta alla base della libertà di coscienza”.
A differenza di Hume, Rousseau ha inseguito l’illusione che la volontà del singolo potesse essere annullata in un “punto di vista privilegiato sul mondo”. Poi, quando si rese conto di avere imboccato una via senza uscita riconobbe che per rendere efficace e reale un simile punto di vista ci sarebbe voluta “un’intelligenza superiore” in grado di comprendere tutte le passioni degli uomini senza provarne alcuna. Pur non avendo alcun rapporto con la nostra natura, avrebbe dovuto conoscerla a fondo ed essere in grado di conseguire la propria felicità indipendentemente da noi, ma avendo al tempo stesso seriamente a cuore la nostra. In pratica, ammise che ci sarebbero voluti degli Dei “per dare leggi agli uomini”, il che in effetti costituisce – come rileva Infantino – “la solenne dichiarazione del suo fallimento: perché l’onniscienza non è una prerogativa umana”.
Leggi tutto: Hume e Rousseau, ovvero Atene e Sparta
Nell’introduzione a Lo specchio che fugge, il volume di racconti di Giovanni Papini pubblicato in traduzione italiana ne La biblioteca di Babele, la storica collana di Franco Maria Ricci curata dallo stesso Borges, quest’ultimo spiega le ragioni della sua ammirazione per uno degli autori che, insieme a Dante e a Croce, lo indusse a imparare l’italiano e che oggi è spesso relegato, anche in molti manuali liceali, entro desolanti spazi marginali.
“A somiglianza di Poe, che senza dubbio fu uno dei suoi maestri, Giovanni Papini non vuole che i suoi racconti fantastici appaiano reali. Il lettore sente dall’inizio l’irrealtà dell’ambito di ciascuno. Ho citato Poe; – continua Borges – potremmo aggiungere che questa tradizione è quella dei romantici tedeschi e delle Mille e una Notte. Questa convinzione di irrealtà corrisponde a ciò che sappiamo del suo destino, sempre insidiato dall’agguato dell’incubo, che inesorabilmente lo accerchiò negli ultimi anni”.
La silloge di racconti in oggetto inizia con Due immagini in una vasca, in cui un uomo si specchia nel riflesso acqueo della sua immagine di sette anni prima. Dopo aver constatato che soltanto l’impossibile diviene reale, dato che solo l’impossibile condivide col reale una dimensione assoluta, prenderà atto che dalla convivenza con quel se stesso anteriore scaturirono per lui alcuni giorni d’impreveduta gioia, che poi, a poco a poco, si trasformò tuttavia in insofferenza e disprezzo.
Nel secondo racconto, Una storia completamente assurda, un uomo trova per caso nel libro scritto da un altro, a lui in precedenza ignoto, il resoconto esatto della sua vita, presentata come fosse una storia immaginaria, storia che il suo inopinato protagonista in carne ed ossa confesserà poi all’autore di trovare “stupida, noiosa, incoerente e abominevole”.
Leggi tutto: Essere un altro, nei sogni di altri
Nel discorso commemorativo del primo centenario della nascita di Pietro Ceretti (Intra, 1823-1884) un altro piemontese, Piero Martinetti (Pont Canavese, 1872, Cuorgnè 1943) ricorda che un elemento importante della sua formazione umana e culturale furono i viaggi, “che egli intraprese dall’età di ventun anni per tutta l’Europa, errando, come i saggi antichi, senza meta, col solo fine di vedere la varietà degli uomini e dei loro costumi. Egli viaggiava a piedi, con la massima semplicità”. Viaggiava fingendosi operaio o bracciante e accompagnandosi talvolta a zingari o vagabondi. A Parigi una volta entrò in un’aula della Sorbona per ascoltare una lezione e dalla reazione basita dei presenti si capisce che il suo aspetto non doveva essere dei più rassicuranti.
Riferendosi a questo periodo giovanile della sua vita lo stesso Ceretti lo descrive così in una delle sue opere (Viaggi utopistici, 1878): “in questa somma libertà della mia vita errabonda ho praticato molte cose, che nel mio paese nativo sarebbero titolate inqualificabili stramberie: per esempio, ho potuto vagolare con un organetto per divertire i popolani, i ragazzi, e le ragazze che mi ballavano intorno, mentre un mio intrinseco vagolava per la debita questua. Ho potuto associarmi con un gessino e un girovago portatore di organetto, i quali erano vagabondi mio pari. Mi ricordo che in simili circostanze si cenava con una zuppa nel medesimo tegame, che serviva per i tre, e ci coricavamo qualche volta in una sola camera”.
Ma chi era questo curioso personaggio, artista di strada e intellettuale, poeta e scrittore, suonatore di organetto nonché autore di ponderosi trattati filosofici di matrice hegeliana? Sicuramente, a distanza di circa un secolo e mezzo dall’epoca in cui ebbe a vivere, la sua celebrità non si è mai discostata molto da quella, piuttosto inconsistente, su cui aveva esercitato la sua autoironia. Il gusto della solitudine e un sereno misantropismo gli consentirono infatti di tenersi alla larga dalla tentazione di voler conquistare successo e fama, e ciò anche grazie a una notevole dose di rigore intellettuale e all’esercizio dell’astinenza pubblicistica.
Leggi tutto: Ricordo di Pietro Ceretti: un artista di strada, un poeta e un filosofo erroneamente poco celebre