Dieci, cento, mille cose buone.

 

Come un’argomentazione faziosa possa conseguire risultati opposti rispetto a quelli che si propone

 

   In un libro uscito pochi mesi fa, un giovane studioso, Francesco Filippi, cerca di dimostrare che l’opinione piuttosto diffusa secondo la quale il fascismo avrebbe “fatto anche cose buone” è falsa. Le argomentazioni che adduce per farlo toccano tutti i punti principali dei pochi meriti solitamente attribuiti al regime fascista. Per quanto tali argomentazioni partano spesso da premesse almeno opinabili, ne riporteremo qui di seguito alcune a titolo di esempio in maniera diffusa e testuale, così da poter far apprezzare il rigore logico delle stesse argomentazioni insieme allo spessore dell’obiettività che le ispira.

   Si potrebbe iniziare la rassegna di alcuni dei punti salienti della trattazione con un tema che viene di solito percepito come “gratificante”: sebbene Filippi ammetta che la tredicesima mensilità, denominata “gratifica natalizia”, sia stata “inserita ufficialmente il 5 agosto 1937 dalla Camera delle Corporazioni fascista all’articolo 13 del contratto collettivo nazionale di lavoro degli impiegati dell’industria”, egli precisa tuttavia che “nessuna altra categoria venne inserita tra quelle meritevoli di un innalzamento del salario a fine anno. Non si trattava infatti di una norma di ampliamento dei diritti dei lavoratori nel loro complesso, ma di un provvedimento ad hoc per una categoria che era bacino di consenso del regime: i cosiddetti colletti bianchi, che formavano la piccola borghesia italiana e che sognavano la sicurezza di un posto fisso che li strappasse alla precarietà; quelli, per intenderci, che cantavano ‘Se potessi avere mille lire al mese’ ”. Quindi, a quanto pare, quella “gratifica natalizia”, poiché riguardava una sola categoria di lavoratori, non può essere considerata una “cosa buona”.

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Verso un nuovo medievo

 Le riflessioni Nikolaj Berdjaev sul destino della democrazia in Russia

 

   “L'individualismo, l'atomizzazione della società, la sfrenata concupiscenza mondana, la sovrappopolazione illimitata e la smodata pletora dei bisogni”: sono questi, secondo Nikolaj Berdiaev, gli ingredienti principali del materialismo economico, per il quale la vita spirituale dell'uomo è un’illusione priva di valore. Il socialismo, d’altro canto, non fa che sviluppare e portare alle estreme conseguenze questa prospettiva materialistica e non rappresenta in fondo che “il trionfo vivo dei suoi principi latenti e la loro piena diffusione”. Esso mutua “dalla società borghese capitalista il suo materialismo, il suo ateismo, i suoi lumi superficiali, la sua ostilità nei confronti dello spirito e di ogni vita spirituale, la sua frenesia di vivere e di godere, la sua lotta per gli interessi egoisti, la sua incapacità di concentrazione interiore”.

   Nicolaj Berdiaev è stato uno dei più brillanti filosofi e critici letterari russo-ucraini del Novecento. In Nuovo Medioevo – il saggio che, uscito nel 1923, gli conferì notorietà internazionale - spiega perché dopo il trionfo di due varianti solo apparentemente opposte dello stesso modello culturale materialistico non possa che profilarsi l’esigenza di un nuovo medioevo, per il quale tornerà ad essere sostanziale ciò che nei tempi moderni viene invece considerato superfluo. In questa nuova epoca della civiltà si potrà infatti tornare “a un tipo religioso più elevato” e a rivalutare la sfera spirituale come l’unica possibilità per opporsi all’attuale decadenza. 

  A uscire da quest’epoca di decadenza il bolscevismo ci ha provato, ma non c’è riuscito, perché partiva dagli stessi presupposti materialisti che intendeva superare. Essendo una “allucinazione dello spirito” poté conquistare il potere perché corrispondeva in quel momento allo stato morale malato del popolo russo, esprimeva “esteriormente la sua crisi morale interna, l'abbandono della fede, la crisi della religione”. Per cercare di far fronte a simili malattie morali la democrazia liberale non poteva essere di alcun aiuto, e nemmeno il socialismo liberale e umanitario. Solo i bolscevichi potevano dar vita a un tipo di regime che fosse espressione del “singolare sentimento di distacco dalle cose terrene” che il popolo russo ha sempre manifestato e che è sconosciuto ai popoli dell'Occidente. Il popolo russo, infatti, “non si è mai sentito legato alle cose della terra, alla proprietà, alla famiglia”, e più in generale non si è mai sentito legato alla nozione stessa di diritto e di cittadinanza. La stessa religione ortodossa ha sempre valorizzato “l'idea del dovere, non l'idea del diritto”. I diritti della borghesia non hanno mai avuto presso il popolo russo una grande rilevanza. 

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Un cuore pieno di simboli... nel diario d'un istante

    È la purezza del dolore che genera la poesia. Nessuna poesia potrebbe aver mai avuto luogo senza l’ombra del dolore necessario a far risuonare l’eco delle sue parole. E la morte, si sa, è maestra nel generare dolore. La principale, e l’ultima, che non lascia spazio a ulteriori infingimenti, non a menzogne o a diatribe.

   La morte è sempre la morte di qualcun altro, come dice Heidegger, e quindi noi siamo condannati a poterne fare esperienza solo per interposta persona, ma in qualche caso la morte di un’altra persona può essere tanto devastante da trasfigurare completamente il senso della nostra presenza del mondo, oppure da renderlo ancor più riconoscibile e nitido, come prima, forse, non era mai stato possibile coglierlo. Nella misura in cui ci siamo rapportati al mondo e agli altri in modo trasparente, l’unica morte che ci è concesso di vivere può purificare e rendere limpido ogni sentimento che durante la vita precedente sia rimasto, anche solo in parte, sospeso o indecifrato.

   Ma la morte è anche apparenza, mancanza di sostanza, non essere per eccellenza. Una metamorfosi sommessa, un dileguarsi nel nulla per farsi eterni, per trovare nel nulla la propria consistenza definitiva. Come scrive Fernando Pessoa in una poesia, è un momentaneo sottrarsi allo sguardo, un divenire invisibili per un tempo imprecisato: “La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio”.

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Johan Huizinga e l'imbarbarimento della civiltà

 

 Ne La crisi della civiltà Johan Huizinga – l’autore, tra molte altre opere, di due capolavori della storiografia di ogni tempo come L’autunno del medioevo e di Homo ludens - manifesta preoccupazioni analoghe a quelle evidenziate da Josè Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse: entrambi, lo storico e il filosofo, registrano un imbarbarimento della cultura, dello spirito e della società nell’età contemporanea che sono strettamente collegabili con il ruolo sempre più decisivo assunto in essa dalle masse.

La critica avanzata da Huizinga può essere riassunta dalle seguenti osservazioni e dal successivo quesito: “la prospettiva di un mondo civile abbandonato a un suo proprio dinamismo, a un sempre crescente dominio delle forze naturali, a una sempre più piena e immediata pubblicità di quanto accade, ha in sé molto più dell’incubo che della promessa di una civiltà purificata, ripristinata, innalzata. Desta visioni di insopportabile sovraccarico e di schiavitù spirituale. La prospettiva di una civiltà che continua a svolgersi ci ispira da gran tempo l’ansiosa domanda: lo svolgimento culturale cui assistiamo non è piuttosto un processo d’imbarbarimento?

Per imbarbarimento – spiega Huizinga di seguito - si può intendere un processo culturale, in virtù del quale una situazione spirituale d’alto valore venga a poco a poco soffocata e ricacciata indietro da elementi di più basso livello. Può essere incerto se i rappresentanti dell’elemento basso e di quello alto debbano necessariamente fronteggiarsi sotto l’aspetto di masse e di élite. A ogni modo, ove si voglia affermare questa popolarità, bisognerà assolutamente svuotare i concetti di massa e di élite di qualsiasi contenuto sociale, e considerarli solo in quanto espressioni di atteggiamenti spirituali. Così intese la cosa anche Ortega y Gasset nella sua Rébelion de las masas.”

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In Ricordo di Remo Bodei

 Remo Bodei su Hegel, Goethe, i romantici e la modernità.

 

   Remo Bodei è stato senz’altro uno dei filosofi italiani più eminenti di questi ultimi decenni, oltre che uno dei pochi italiani che fossero conosciuti e apprezzati all’estero. Si è spento il 7 novembre scorso, all’età di 81 anni. Alla cerimonia di commiato che si è svolta due giorni dopo nel cortile della Sapienza a Pisa, c’erano colleghi, lettori e allievi di varie generazioni, perché il suo insegnamento e la sua opera sono stati coerenti con i suoi valori e il suo carattere.

   Bodei credeva nella vocazione dialogica della filosofia, vocazione che non ha mai cessato di valorizzare con il suo esempio. Era una persona mite e cordiale, e quest’aspetto della sua indole e del suo pensiero traspariva non solo dalle sue lezioni e dal suo modo di conversare, ma anche dal complesso della sua opera, che senza lasciarsi costringere in ambiti specialistici ha spaziato tra problematiche anche molto diverse rimanendo sempre “fedele ai classici” e fornendone spesso letture originali.

   La filosofia moderna e contemporanea, in particolare tra il XVII e il XX secolo, ha rappresentato forse il suo campo d’indagine privilegiato, che però includeva anche la psicoanalisi, la letteratura, le scienze, la religione e, più in generale, la società. In un suo libro di alcuni anni fa, Scomposizioni, prese a pretesto un frammento di Hegel per introdurre il lettore ad una differenza ancor oggi significativa e attuale: secondo quanto sostiene Hegel, gli uomini che non riescono ad attingere la vita in maniera armonica e piena sono essenzialmente di due tipi:  coloro che rispettano e assecondano le regole loro imposte dalle istituzioni e dal costume, pur soffrendone e desiderando inconsciamente d’evaderle; e coloro che, pur essendo coscienti della violenza esercitata su di loro dalle circostanze storiche e sociali, tendono a considerare tale violenza come inevitabile, coessenziale alla struttura della società, e decidono quindi di sfuggire quest’ultima rinchiudendoci nell’oasi del proprio mondo interiore.

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Ribelli affini e contrari

 

 

Alcune considerazioni in margine a un saggio di Paolo Buchignani sui “Ribelli d’Italia” e sul sogno della rivoluzione nel nostro paese.

  

 

  I - Le contiguità ideologiche e politiche dei <<ribelli>> di destra e di sinistra in Italia

 

   Il saggio di Paolo Buchignani Ribelli d’Italia rivela le contiguità politiche che nel nostro recente passato hanno caratterizzato i rapporti tra le varie tipologie di ribellismo rivoluzionario di destra e di sinistra, fornendoci una chiave per comprendere meglio non solo la storia italiana nell’ultimo secolo e mezzo, ma anche gli scenari politici attuali.

   La battaglia politica condotta da massimalisti e comunisti contro la componente riformista e socialdemocratica del socialismo italiano ha avuto un ruolo e un rilievo fondamentali per la successiva storia nazionale ed europea. Quando in Europa, all’inizio degli anni venti, i comunisti e i socialisti massimalisti volevano conquistare il potere con la violenza rivoluzionaria, i socialdemocratici e i socialisti riformisti, che i primi bollavano spesso come revisionisti o socialfascisti, accettavano la democrazia liberale e parlamentare. Ma se in Europa questi secondi ebbero ben presto la supremazia sui primi, questo non avvenne in Italia, né prima, né durante, né dopo il ventennio fascista. All’interno del Psi i massimalisti erano sempre stati in maggioranza e “la componente riformista di Turati e Matteotti uscirà soltanto nel 1922, alla vigilia della <<marcia su Roma>>, troppo tardi per incidere positivamente sulla crisi politica e impedire l’avvento del fascismo”.[1]

    Il trattamento sprezzante riservato ai riformisti dalla componente maggioritaria e massimalista del Psi sarà adottato anche da Gramsci all’interno del suo partito: “<<I riformisti e gli opportunisti – scriveva su L’ordine nuovo – nonostante la loro pretenziosa fraseologia scientifica, sono completamente usciti dalla tradizione della dottrina marxista e rappresentano, nel campo della lotta operaia organizzata, un’infiltrazione di agenti ideologici del capitale>>”.[2]

      Le ideologie rivoluzionarie che costituiscono la matrice comune da cui, durante i primi decenni del Novecento, prenderanno spunto in Italia le posizioni politiche di comunisti e fascisti sono (oltre al già sedimentato pensiero di Mazzini, Marx, e poi Lenin e Bakunin) il pensiero e l’iniziativa politica di Alfredo Oriani, le opere di Gobetti, dei vociani e dei futuristi, dei sindacalisti rivoluzionari e dei socialisti massimalisti. Le loro analisi teoriche e i loro programmi politici dettero vita ad un humus culturale fecondo e inquieto, fervido di concezioni della società e della storia che hanno spesso diversi elementi in comune e che hanno anche reso possibili collaborazioni e amicizie tra personalità politiche assai diverse.

   Il libro di Paolo Buchignani - docente du Storia Contemporanea presso l'Università per stranieri "Dante Alighieri" di Reggio Calabria - ha il grande merito di fornirci un quadro dettagliato di questi rapporti, evidenziando elementi utili, quando non decisivi, per un riesame critico di questo periodo storico, delle sue temperie culturali e dei legami ideologici che hanno caratterizzato i rapporti tra opposte formazioni di <<rivoluzionari>>, soffermandosi spesso su dettagli e aspetti poco noti anche ad appassionati lettori o studiosi di storia contemporanea.

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Sulle tracce di una fede implicita

Rilettura di un saggio di Paolo Ghezzi su Fabrizio De André alla luce del pensiero di Simone Weil.

 

     “Nessun altro autore di canzoni del Novecento italiano, nella sua opera, ha toccato così profondamente il problema di Dio, il mistero di Gesù di Nazareth, la coscienza di chi ha fede, i dubbi dei non credenti, i sentieri dei cercatori di qualche verità o del senso della vita”. Paolo Ghezzi, in un libro di ormai una quindicina di anni fa, sosteneva questa tesi difficile da confutare, sottolineando un aspetto dell’opera di Fabrizio de André che, pur essendo stato da molti avvertito, non era stato fino ad allora individuato come un aspetto saliente e decisivo della sua poetica. In effetti, le canzoni di Fabrizio sono disseminate di orme evangeliche in una variegata galleria di santi peccatori, in tante “anime salve” perdute per il potere e prive di potere, in personaggi che si sono svuotati dal loro essere “persona” e che hanno rinunciato a identificarsi con la propria forza, di qualsiasi tipo essa sia, per riconoscersi piuttosto nella loro debolezza.

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Tra l'estraneo e il familiare, l'aurora.

  Dove coabitano la vita e il vuoto, il silenzio e la parola.

 

 

  Il titolo di questo libro – L’estraneo e il familiare - fornisce una chiave di lettura della poesia italiana del Novecento a un tempo originale e illuminante. Probabilmente quanto Bonifazio Mattei vi argomenta, talora in una maniera lucidamente lirica, potrebbe essere esteso anche ad altri poeti coevi di quelli italiani presi in esame, (quali Ungaretti e Montale, Caproni e Sbarbaro, Penna e Saba, per menzionarne solo alcuni) ma la sua narrazione permette comunque di scorgere distintamente nella poesia italiana del secolo appena trascorso quella peculiare “tensione morale” che testimonia ogni volta il “riverbero dell’io in una realtà estranea”, come se la poesia fosse nella sua essenza “un’esperienza di marginalità e annullamento, che coincide tuttavia intimamente con una condizione di rinascita, di riappropriazione del sé”.

 

   Una simile vocazione della poesia risulta per esempio ben evidenziata dalla dimensione dell’aurora, del chiasmo ciclico e fatale cui allude, ovvero quello che si realizza allorché la vita svanisce ogni giorno nel nulla, e poi rimane in qualche modo sospesa in una radura aurorale per riemergere ogni volta dal suo eterno svanire.

 

   Nel 1964, in occasione delle lezioni tenute alla Columbia University sui temi della propria poetica, Ungaretti si soffermò sull’importanza che in essa rivestiva il tema dell’aurora – “un’aurora non edenica, non di perfetta felicità, in qualche modo contaminata dalla storia; il tema del desiderio a un ritorno dello stato edenico; il tema della morte, del nulla”.

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La vocazione di chi pensa senza esistere? Non scrivere!

 

La letteratura del <<No>> e il fantasma dell’inazione.

 

   L’idea di scrivere un libro su Bartleby e i suoi ideali compagni di viaggio nella storia della letteratura nacque nella fantasia di Enrique Vila-Matas un martedì in ufficio, quando a un certo punto ebbe l’impressione che la segretaria del capo dicesse al telefono: “Il signor Bartleby è in riunione”. Poiché gli risultò difficile immaginare Bartleby in riunione con qualcuno, “immerso nell’atmosfera tesa di un consiglio d’amministrazione”, al solo pensiero si mise a ridere da solo.

   Sul tema della sindrome di Bartleby – scrive Vila-Matas - “ci sono due racconti fondamentali, inventori oltretutto della sindrome e della sua possibile poetica. Si tratta di Wakefield di Nathaniel Hawthorne e Bartleby lo scrivano di Herman Melville. In questi due racconti compaiono delle rinunce (alla vita coniugale nel primo, e alla vita in generale nel secondo), e, sebbene tali rinunce non siano in rapporto con la letteratura, il comportamento dei protagonisti prefigura i futuri libri fantasma e altri ripudi della scrittura che non tardarono poi a inondare la scena letteraria”.

  Bartleby non è però solo il precursore di un determinato atteggiamento resistente o sfuggente verso la vita, ma anche uno dei fondatori della letteratura del <<No>>, cioè un personaggio che prelude a tutti quegli scrittori che a un certo punto della vita si sono rifiutati di scrivere. Alcuni, come per esempio Robert Walser, lo fecero probabilmente perché, considerandosi delle nullità, volevano essere dimenticati, dato che il presumere di non esserlo poteva distrarli dall’abbandonarsi completamente alle loro attività preferite, come il contemplare “le case illuminate del sole e le bandiere ondeggianti al vento”. In altre parole, Walser voleva essere una nullità per potersi dedicare alle vanità dell’esistenza, e in questo aveva qualche affinità con Fernando Pessoa, il quale arrivò a considerarsi una nullità al punto “che una volta, mentre gettava per terra la carta stagnola di un cioccolatino, disse che così, in quel modo, aveva buttato via la sua vita”.

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La purezza del sorriso e il divertimento del nulla

  Gli esercizi di lettura suggeriti – con affetto e gratitudine - da Anna Maria Ortese

 

  L’orsa bianca dello zoo ha appena avuto un figlio e Anna Maria Ortese non riesce a staccare gli occhi di dosso dalla scena, da quell’“immagine sacra”, dalla “cieca grazia del figlio” e dal modo in cui la madre lo accudisce offrendogli un rifugio. Il sospetto che però subito l’attraversa è che noi siamo tutti orfani di quell’orsa, di quella premura così assoluta e avvolgente, prede di un ingranaggio sinistro che rende sempre più automatici e inconsapevoli i nostri gesti e i nostri pensieri, quasi fossimo ormai dei “creditori del nulla” perduti “nel sistema senza orizzonte dell’utile”. E infatti quel bianco dell’orsa le ricorda il bianco di Moby Dick, il placido presagio di morte che incombe sulla vita di Achab, “uomo pieno di rumore e insieme taciturno, ignoto alla Parola, come un insetto, una gigantesca formica. Un uomo – del – Futuro solo in apparenza: in sostanza, Anti-Uomo, Anti-Universo, Anti-Dio”.

    Nella visione della Ortese, Achab sarebbe infatti l’anticipatore dell’uomo d’oggi, irrigidito e ossessivo, capace di un odio senza limiti e per questo non più capace di produrre segreti, ma incarnazione di un unico segreto immobile e vorace.

    Ma questo è solo uno dei tanti spunti contenuti in questa breve rassegna di ricordi letterari, di recensioni, di schizzi e ritratti a memoria, che ha il solo privilegio di conferire il titolo alla raccolta (Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all'Orsa Bianca, Adelphi). Non è facile individuare in essa un filo rosso ulteriore rispetto allo sguardo dell’autrice, uno sguardo che rivela una sensibilità rispettosa verso ogni forma di vita e che s’incarna in uno stile limpido, penetrante e lieve. Le opere e gli autori che in questo libro si legano in un ordito sottile sono i più disparati, tanto che potrebbe risultare assai problematico il vederli comparire insieme all’interno di in uno stesso testo. Qui la Ortese ci parla di Hemingway e De Amicis, di Melville e del Vangelo, e poi ancora di Buzzati e Anna Frank, di Edoardo De Filippo – i cui personaggi le ricordano talora quelli di Gogol - e di Leopardi, di Thomas Mann, di Wilde, della Morante, di Cechov e di molti altri scrittori da lei amati o ammirati con una singolare modulazione d’affetto o di stima, per motivi diversi ma forse anche per una stessa ragione di fondo, che potrebbe consistere in una sorta di trasparenza della loro scrittura, in una piena aderenza della loro vita alla qualità e al timbro della loro prosa o della loro poesia.

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Mosso da una brezza leggera

 

 

L’<<idiota>> di Maria Zambrano tra Dostoevskij e Pessoa

 

 

 

   C’è un voto di povertà del pensiero, un’ignoranza pura in cui la parola non può essere nemmeno concepita. Il pensiero, quando è puro come quest’ignoranza, invoca il luogo che gli è proprio, il luogo bianco dell’anima dove presto svanisce l’eco di qualsiasi parola. In questo luogo non si spera di sapere nulla, si è sradicati da ogni desiderio. Persino la speranza vi appare senza radici. Chi si trova ad abitare questo luogo “va sempre errando”, perché non possiede un suo spazio e “se ha una casa esce presto e vi torna con le ombre”, senza poter mai raggiungere gli altri là dove “si muovono, vivono, sono”. Essendo spodestato, “non vuol possedere” e vive come “abbandonato da se stesso” in quella corrente “che si chiama vita”. Anche il suo modo d’incedere rivela la sua docilità estatica a questa corrente, quasi ammantandone l’esistenza di un’incertezza esiziale, d’un alone d’assenza, perché “non cammina mai del tutto eretto” e “la testa gli sfugge all’indietro, come mossa da un’impercettibile brezza”.

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Un'anima è nella mia anima...

... e non si ricorda d’esser morta.

 

La tomba di Chateaubriand si affaccia sul mare della Bretagna. A SaintMalo, patria dei corsari, una croce di pietra, piuttosto tozza e massiccia, se ne sta in alto, quasi a strapiombo, come assorta a contemplare l’orizzonte, forse a ricordare. Albert Manguel scrive che per Chateaubriand “il mondo che vediamo è già memoria: di cose passeggere, effimere, perdute, che pure non vogliono abbandonarci del tutto. Il passato non se ne andrà: quello che sperimentiamo esiste soltanto nel momento che fugge,” ma nulla va perduto, nulla discende nella tomba, perché tutto ciò che abbiamo conosciuto continua a vivere intorno a noi e “la morte, toccandoci, non ci distrugge, ci rende solo invisibili”.

Come in un gioco di scatole cinesi, il poeta e scrittore olandese Caes Nooteboom ha raccolto in questo suo libro itinerante e nostalgico scritti e memorie di altri scrittori e poeti, che a loro volta ricordano e condividono con lui il gusto del non lasciar svanire, del voler far riaffiorare dal passato quanto si lascia solo levigare dal tempo. Pellegrinando di tomba in tomba, l’autore coltiva il sapore di pagine che ha amato e lascia presagire la compagnia vaga e pungente dei loro estensori.

Sono molti i poeti e i pensatori che si succedono in questa variegata teoria di pietre sonore visitate da Nooteboom. Alcuni di loro, come Goethe e Schiller, sembrano rimasti amici dopo la morte. A Weimar stanno uno accanto a l’altro, nelle rispettive urne, tanto da suggerire l’idea che la loro amicizia ignori le loro rispettive morti. Altri, invece, non solo sembrano credere pienamente nella morte, ma ne hanno una visione implacabile e algida, come della fine del tempo e di tutto. Ionesco, per esempio, immagina, in maniera scientificamente plausibile, che il mondo un giorno gelerà. Un’insensibilità polare si stenderà sopra di noi e poi “un gran sole farà sciogliere i blocchi di ghiaccio, e poi ci sarà un vapore, e anche la bruma si dissiperà nella luce azzurra”. Alla fine, “non resterà più alcuna traccia”.

Anche Joyce, in Dubliners, associa l’idea della fine con il freddo e con il bianco, immaginando che pian piano l’anima svanisca mentre si sente “la neve cadere stancamente su tutto l’universo”. Leopardi, invece, l’associa piuttosto con il buio: nella sua visione a un certo punto la luna scende e si scolora il mondo, le ombre svaniscono mentre “monti e vallate si dissolvono nella stessa oscurità”.

Non si tratta però solo di come possono essere state immaginate le agnizioni della fine. In questo libro sembra piuttosto che Nooteboom sia stato convocato dai suoi singoli interlocutori segreti, che abbia risposto al richiamo di un appuntamento ideale. A volte è il vento a ricordarglielo, come quando, nel Maine, sulla tomba non finita della sua amica Mary McCarthy, davanti a “tre vasetti con piccoli crisantemi bianchi”, una folata gli tira i vestiti come se volesse qualcosa da lui; o come quando gli palesa l’esistenza di un’altra specie di morte: non quella fisica degli scrittori e dei poeti, ma quella più sordida e mesta dell’oblio in vita. Così come, per esempio, quando si trova al cospetto di Melville, la cui tomba “è semplice, quasi povera, la sepoltura di un autore dimenticato al momento della morte”. Del successo postumo delle sue opere “non saprà mai nulla”. A New York, nel cimitero di Woodlawn, c’è “una quercia maestosa”, e quando Nooteboom visita la sua lapide c’è un vento che strappa i fiori bianchi di una magnolia e “li fa cadere come una strana specie di neve”.

Tra queste sepolture lo spazio e il tempo si dissolvono naturalmente. Poche pagine dopo averci condotto sulla tomba di Melville ci ritroviamo a Kyoto, davanti all’urna di Murasaki Shikibu: “Come Proust, Murasaki ha fatto uso per la propria creazione letteraria della realtà che la circondava, la vita alla corte di Heian nel X secolo. In questo modo ha preservato in noi, che viviamo mille anni dopo, una realtà che è divenuta talmente inimmaginabile da apparire come pura finzione letteraria”. Mille anni dopo, proprio quando un biglietto della metropolitana gli ricorda la sua appartenenza a un altro secolo, la rivede nella fantasia di una nicchia mentre scrive dandogli le spalle. Osservandola da dietro una rete metallica immagina il suo volto incipriato di bianco e osserva che “tiene in mano un pennello sottile, inginocchiata. Balzac stava seduto – osserva poi - Nabokov in piedi, Proust sdraiato, Murasaki in ginocchio. Un giorno qualcuno dovrà indagare le conseguenze delle diverse posizioni in cui si scrive”.

A proposito di Nabokov, la sua tomba “è grande come quella di Claudel e Neruda, un letto matrimoniale nel lussuoso hotel della morte”; come dimensioni, non è molto diversa da quella scura di Proust, a Parigi Père-Lachaise, sostando davanti alla quale Nooteboom ci rammenta l’eterno “libro che doveva ancora scrivere, un libro in cui avrebbe parlato del posto così limitato che gli uomini occupano nello spazio rispetto a quello infinitamente più grande che è loro riservato nel tempo”.

In questo fitto susseguirsi di poeti e scrittori, ci sono però anche alcuni filosofi cui Borges avrebbe riservato una collocazione eminente nel suo manuale esemplare di letteratura fantastica. Il monumento funebre di Spinoza, a l’Aia, è appartato e solitario. Si trova dietro la chiesa nuova (che è poi una chiesa antica) e reca la seguente epigrafe: <<Caute>>, che significa “sii prudente, fa’ attenzione”. Non resta forse che questa possibile esortazione in un cosmo in cui non v’è traccia di libero arbitrio e a noi vengono assegnati “un nome, un tempo e un luogo, tutti e tre inestricabilmente connessi alla sostanza dell’universo che l’uno chiama natura e l’altro dio”. A Cambridge - lo si scopre poco dopo - una lastra posata a terra contiene le spoglie dell’autore di un altro Tractatus, che di Spinoza era comunque un estimatore. Pare che questa sia giornalmente visitata da molti giapponesi, che considerano Wittgenstein una sorta di santo buddhista, forse perché si era proposto, a suo modo, di lasciar germinare in silenzio le domande essenziali, rinunciando poi a decorarle di risposte vane.

Ben più estrema e originale, rispetto a quelle di entrambi, è la dislocazione della tomba di Stevenson, che si trova sul monte Vaea, isola di Upolu, a Samoa, dove lo scrittore aveva terminato i suoi giorni come aveva desiderato. Dopo che il suo corpo fu spalmato con olio di cocco profumato, con indosso la sua giacca di velluto, venne deposto in una bara costruita da un falegname del luogo in una sola notte.

Un aspetto abbastanza monumentale ha anche la sepoltura di Valéry, nel cimitero marino di Sète, nella Francia meridionale: Stefan Hertmans, scrittore e poeta fiammingo, ha scritto di lui, in maniera perentoria, servendosi d’espressioni efficaci e salienti, che “era distratto e cortese, non era spesso nemmeno riconosciuto, canuto leggero nella solitaria profondità, nascosto maestro di un’infinita serie di finte, varianti”.

L’autore racconta poi di aver incontrato per caso Oscar Wilde, dopo aver percorso un vialetto di olmi spogli presso Père-Lachaise: qualcosa che assomigliava a un forte o a una rocca, contro cui stava “accovacciato un essere in forma di uccello, ma con un volto umano incoronato e dai tratti orientali: enigmatico animale mitologico che non si può trovare in nessun manuale di ornitologia”. Dice poi che, nel progetto iniziale, non era stato invitato nel suo libro, che si è invitato da solo, ma che era <<benvenuto>>, non fosse altro perché si erano ritrovati sulla stessa tomba di Keats.

Nel giardino di Monk’s House, nell’East Sussex, si trova invece quel che resta di Virginia Wolf, a parte, ovviamente, quel che ancora aleggia inquieto dalle sue opere: “le sue ceneri sono state sparse nel giardino che si può vedere portandosi a fianco dell’antica chiesetta”.

A Colliure, ancora nel sud della Francia, una grande pietra rettangolare sovrasta invece le ossa di Antonio Machado; ma ancora più evocativo dell’impatto con i suoi resti mortali è l’incontro che Nooteboom fa con un piccolo monumento dedicato al poeta nella piccola Baeza. Mentre sale “un sentierino su per l’alta collina dietro la cattedrale”, s’imbatte in una statua di Machado, “anch’essa fatta della materia di cui son fatti i sogni, perché la testa del poeta è una testa senza corpo, è di bronzo, ma è imprigionata nel cemento e posa su un basso cumulo di macerie, gli occhi aperti, ma fissi nel vuoto; gli uccelli l’hanno coperta di escrementi: lungo il volto gli scendono sporche, amare lacrime, grigie e bianche, di sterco d’uccello, una testa di poeta imbalsamata in una gabbia di cemento, come quella di un idolo posta a dominare la terra di cui scrisse che era tanto triste da dover avere, proprio per questo, un’anima”.

Tutte queste lapidi (qui è possibile enumerarne solo alcune, con i rispettivi nomi) custodiscono dei morti che sembrano non ricordare più, proprio come un certo personaggio di Beckett, quando sono morti. La loro sopravvivenza pare averli sorpresi in luoghi per lo più dimenticati, nelle anse dimesse di certi camposanti, nelle provvisorie alcove che la loro arte gli ha riservato nella memoria di chi li ha fugacemente amati, nel ricordo fervido e terso di chi invece si è lasciato avvincere e tradurre dalla loro opera verso il proprio destino. L’amarezza e il disincanto dei narratori beckettiani assecondano la stessa legge: anche in un letto gelato, hanno l’impressione di poter diventare ogni giorno più vecchi e di poter contemplare all’infinito tutte le stelle che sembrano da sempre cadere loro addosso. Allo stesso modo pare che per certi lettori, come lo stesso Nooteboom, i poeti e i pensatori continuino davvero a parlare, sembra che possano continuare a invecchiare, noncuranti del loro forzato silenzio apparente, come se in loro una qualche ferita continuasse a sgorgare e una brezza leggera continuasse a spirare nei vaghi interstizi della loro anima.

Questa circostanza produce a volte una sorta di vertigine, come nell’universo di Borges, che poi, dopo essere stato tentato dalla Recoleta, scelse il cimitero di Plainpalais, a Ginevra, dove ora riposa accanto a Giovanni Calvino e ad Anna, la piccola figlia di Dostoevskij. Chi attraversa, anche leggendo un solo racconto, l’universo di Borges può infatti avere l’impressione di essere risucchiato verso infinite dimensioni di compossibili e avverte, a tratti in maniera repentina, l’urgenza d’incontrare una realtà totalmente altra e assoluta, un’altra tigre che faccia svanire “lo stato di costante perplessità di cui è fatta la vita”. Come tra le pagine di Borges, anche qui, in questo libro, a volte si avverte il bisogno di sfiorare con una mano quelle pietre o quell’erba, di percepirne la fredda o tenue consistenza, quasi fossimo sfiorati dalla vertigine di non esistere già per sempre e di doverci aggrappare a qualcosa, ma anche dall’impressione di poter rivedere, in un ultimo barlume di realtà, gli involontari promotori del nostro destino mentre ci parlano ancora una volta.

Alla fine della lettura, quel che rimane è la nostalgia di tante pagine amate, una sete acuta di ricordi e di memorie letterarie che non accenna a placarsi. Forse è Balzac (anche lui a Père-Lachaise) a sapercene spiegare meglio il movente e la segreta dinamica; e per questo ci piace salutare con gratitudine questo libro utilizzando le sue parole: “vi sono persone che seppelliamo nella terra, ma ve ne sono di più particolarmente care che hanno avuto il nostro cuore per sudario, il cui ricordo si fonde ogni giorno coi nostri palpiti; e noi pensiamo ad esse così, come respiriamo; esse sono in noi per la dolce legge della metempsicosi propria dell’amore. Un’anima è nella mia anima. Quando agisco bene, e quando dico qualcosa di bello, quell’anima parla e opera; tutto ciò che può esservi di buono in me emana da quella tomba, come da un giglio il profumo che pervade l’atmosfera”.

CAES NOOTEBOOM, Tumbas. Tombe di poeti e pensatori, trad. it. Iperborea, Milano, 2015.

 

Della stessa stoffa dei sogni

  Riprendendo una tradizione millenaria, Rabelais sostiene che la nostra anima, quando sogna, s’innalza alla sua vera patria, che è il cielo. Ne L’interpretazione dei sogni, che oggi è forse il libro più famoso e letto su quest’argomento, Freud avanza invece l’ipotesi che i sogni siano realizzazioni di desideri, e quasi sempre di desideri sessuali. Borges pare decisamente più incline a dare più credito alla prospettiva teorica suggerita dal primo che non a quella proposta dal secondo, tant’è che, nell’antologia di brani letterari e filosofici raccolti in questo Libro di sogni, Freud non viene nemmeno nominato.

   Per Borges i sogni sono “spiegazioni” di stati d’animo che si sono provati durante la veglia e che ci hanno colpito in modo particolare o ricorrente. Nel sostenere questa teoria fa riferimento a quanto già sostenuto da Coleridge,  secondo il quale “le immagini della veglia ispirano i sentimenti, mentre durante il sonno sono i sentimenti a ispirare le immagini[…]. Se una tigre entrasse in questa stanza – scrive Borges a titolo esemplificativo – avremmo paura; se abbiamo paura nel sonno, generiamo una tigre. Sarebbe questa la ragione visionaria della nostra inquietudine. Dico una tigre, ma dal momento che la paura prelude all’apparizione improvvisa della tigre, per dare senso a quell’orrore possiamo proiettarlo su una figura qualsiasi, che durante la veglia non è necessariamente orrenda. Un busto di marmo, una cantina, l’altra faccia di una moneta, uno specchio. Non c’è forma nell’universo che non possa contaminarsi di orrore. Di qui, forse, il particolare sapore dell’incubo, che è molto diverso dallo spavento e dagli spaventi che è capace d’infliggerci la realtà”(pp. 20-21).

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Il dono dei poeti

 

Il segreto ordito che siamo ci precede appena, senza mostrarsi; solo di parola in parola è dato intravederlo, macchia d’inchiostro dopo macchia d’inchiostro. Come il dio di Delfi accenna soltanto alla sua forma finale, senza dirla mai del tutto. Così, sulla superficie  increspata dello stesso dormiveglia, frammenti di sogni e di pensieri scorrono insieme all’eco di miti e di poesie, e le tracce letterarie orientali-occidentali affiancano quelle delle amicizie più antiche.

In questo flusso di ricordi e lucide nostalgie il poeta può rivolgersi al figlio Ariele come fosse un semidio e analoghi nomi, quasi divini, assumono le persone a lui più care, come le due mogli e gli amici. Ancora una volta, a distanza di anni dopo Teatrini del Signor Egli, giace assopita sullo sfondo la stessa agnizione: “quel poco che c’era da dire era niente”. Un nonnulla basta infatti a suscitare versi che “evaporano l’istante successivo nel vuoto”.

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E il mare diventò tranquillissimo e buono, come l’anima di un cigno

L'ultima rassegna di vite insolite ed esemplari di Geminello Alvi

 

   Geminello Alvi è un economista cordiale, incline a un eloquio poco accademico, ad un tempo rigoroso e informale, dialogico e costruttivo. Ciò nonostante, in un’intervista di circa un anno fa, si è espresso criticamente verso alcuni mostri sacri del nostro panorama culturale, aggiungendo che il più scarso dei poeti di mezzo secolo fa sarebbe stato un gigante al giorno d’oggi. Studioso dell’Apocalisse, un libro interminabile che sta continuando a leggere, ma su cui non pensa che scriverà mai niente, è giunto a pensare che stiamo creando una società di vigliacchi e di gente senza onore, e che, in particolare, l’Italia è ormai un paese vuoto di valori.

   La perentorietà di simili dichiarazioni non deve aver giovato alla sua reputazione in certi ambienti che contano, dov’era del resto già da prima assai precaria. Per di più, si è anche espresso in maniera poco lusinghiera sul capitalismo, assimilandolo a una visione del mondo ormai senza cervello, oltre che senza cuore. In questo modo, con poche battute irriverenti, è riuscito a scontentare tutti in un colpo solo, e cioè in una sola intervista, aiutandoci a capire perché sia così poco presente nei talk show televisivi.

   Eppure, dicevamo, Geminello Alvi ha tutta l’aria di essere, oltre che una persona schietta, anche una persona cordiale. Lo si capisce, oltre che da come parla, anche da come scrive. Di certo, l’eccentricità di alcuni aspetti della sua personalità non ha un’origine artificiosa, non è né un vezzo né una maniera d’essere costruita, ma sembra piuttosto derivare da una spiccata sintonia con il carattere di altre personalità eccentriche che ha ben compreso, ammirato o amato.

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In un punto indefinito del giardino

 

  Ci sono libri che sondano confini e talora non sono soltanto dei libri, ma assomigliano a implicite iniziazioni, a viatici spirituali. Consegnano al lettore la disponibilità di uno sguardo che era rimasto sospeso a mezz’aria, di uno sguardo prima non avvertito, ma ora in grado di condurlo per mano verso quella linea di confine in cui la vita e la morte si sondano e s’illuminano a vicenda. 

Succede che un giorno un amico faccia notare all’autrice una leggera zoppia, che poi si rivela essere il primo segnale di una malattia grave. Questa irrompe nella vita e diviene l’occasione per scrivere un libro, uno di questi libri che non sono soltanto dei libri, quasi l’espediente tragico escogitato dalla natura o dal destino per indurre una trasfigurazione spirituale.

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Spensierarsi... come una pietruzza insignificante

Un’apertura sul pensiero di Raimon Panikkar e sull’ethos dell’infinitamente accanto.

 

 

Ciò che si sbriciola si sbriciola, ma non può essere distrutto (Franz Kafka).

 

 

   Che cos’è la vita individuale? Una goccia d’acqua. E l’eternità? Lo sciogliersi di quella goccia d’acqua, lo straripare dai suoi temporanei limiti, la sua dissoluzione nel tempo e nello spazio. Paulo Barone – filosofo, psichiatra e psicoanalista di formazione junghiana - ci offre un ampio resoconto di questa metafora riproposta da Raimon Panikkar, teologo e filosofo tra i più originali del Novecento che, come racconta di sé, partì cristiano per l’India nel 1954, si ritrovò hindu e ritornò buddista senza aver per questo mai cessato di essere cristiano.

  Quella della goccia d’acqua è una metafora presente in molte tradizioni religiose, orientali e occidentali, e nella versione di Pannikar, riportataci da Barone, recita così: “Noi siamo gocce d’acqua. Che cosa ne è della goccia d’acqua quando muoio? La goccia scompare. Cade nel pélago infinito. Scompari? Ma cosa sei tu, in realtà, la goccia d’acqua oppure l’acqua della goccia? Durante la nostra vita mortale, noi dobbiamo realizzarci come acqua, e non soltanto come goccia. La goccia è il luogo delle mie lotte, delle mie cadute e delle mie vittorie – di tutto ciò che mi causa gioia e sofferenza in forma immediata. Ma se mi realizzo in maniera autentica, se sono all’ascolto della realtà che sono in profondità, io sono acqua. Che cosa accade dell’acqua quando la goccia cessa di esistere? Niente. Essa non cessa di essere quello che è. La goccia cade nel mare, ma l’acqua tuttavia non scompare. Quest’acqua, certo, non posso più differenziarla dall’esterno; ma, vissuta dal di dentro, se così posso dire, quest’acqua non cessa di essere acqua – la ‘mia’ acqua, l’acqua che io sono. Quest’acqua è unica. Nessun pericolo può dissolvermi. È qui il mistero della personalità, che non va confusa con l’individualità”.

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La terza tigre e l'oceano delle teorie

 

Un saggio di Igor Sibaldi su Borges e i “tre mondi” di Popper

 

Karl Popper pensa che non ci sia un solo mondo, ma che ve ne siano tre: nel Mondo 1 ci sono le cose concrete; nel Mondo 2 ci sono i nostri processi mentali e nel Mondo 3 i prodotti di questi processi, e cioè le nostre teorie sul Mondo 1 e sullo stesso Mondo 2. Il Mondo 3 non è quindi secondo Popper solo il risultato dell’attività del Mondo 2, ma retroagisce anche su di esso, dimostrandosi autonomo e capace d’influenzarne il comportamento in maniera decisiva. Il mondo 3 è reale in un senso diverso da quello in cui lo è il Mondo 1, dato che mentre quest’ultimo è fatto da rocce, acqua e alberi al Mondo 3 si accede attraverso un apparato linguistico o simbolico, e cioè attraverso parole e numeri. Mentre i primi due mondi sono nel tempo, il Mondo 3 è atemporale: una volta nata, una teoria scientifica o un’opera letteraria possono rimanere sullo sfondo dello scorrere del tempo in eterno, come le idee di Platone e il mondo iperuranio, che costituiscono uno dei primi modelli del mondo 3. L’Iliade o i Principia di Newton, in effetti, sono sempre gli stessi, sebbene naturalmente siano destinati a invecchiare i tomi cartacei che possono occasionalmente ospitarli. 

Igor Sibaldi sostiene - in  La scrittura di Dio. Discorso su Borges e sull’eternità, Edizioni Spazio Interiore, 2015 - che questa teoria del Mondo 3 è presente già nelle prime opere di Borges. Ne l’Orbis Tertius, ad esempio, un racconto del 1940,  il narratore dice di aver trovato in un’enciclopedia notizia di un paese non rintracciabile negli atlanti, di un paese sconosciuto in cui “<<le cose si duplicano e tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli, quando la gente li dimentica>>”. In esso, dunque, il passato risulta modificabile non meno dell’avvenire, altrettanto “plastico e docile”. Anche in questo “Mondo terzo” vi sono i duplicati del Mondo 2, ovvero le idee e teorie prodotte dall’attività mentale umana, oltre che quelli del Mondo 1; ma (cosa questa che Sibaldi non precisa) mentre nella teoria di Popper gli oggetti di questo mondo non svaniscono quando vengono dimenticati o non percepiti, nel borgesiano mondo di Tlön possono dissolversi non appena cessano di essere visti.

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La vendetta e l'espiazione

Due trasfigurazioni de "La colpa e la vergogna" lungo la linea gotica

A volte una piccola colpa può avere terribili conseguenze. Su questo tema Abraham Yehoshua ha scritto qualche tempo fa un saggio in cui, oltre a farci ripercorrere le tracce di tali conseguenze nella storia della letteratura, esorta la stessa letteratura ad assumersi le proprie responsabilità etiche non attraverso i discorsi o le teorie degli autori, ma a partire dalle storie narrate e dai personaggi che le popolano.

Un personaggio di questo genere è senz’altro Maurizio, che una colpa vera e propria non ce l’ha nemmeno. Perlomeno, la sua colpa non deriva da un’azione commessa, ma da una disparità della sorte, dal caso di un’ingiustizia che lo ha favorito e di cui vorrebbe offrire riparazione, dalla ribellione istintiva a un’iniquità metafisica ancor prima che politica o sociale.

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Una vita sola non è una vita

  Una silloge di diciassette racconti dello scrittore argentino Abelardo Castillo tradotti da Elisa Montanelli per l'editore Del Vecchio

Ne I mondi reali di Abelardo Castillo un frammento dell’io del narratore può saltare via all’improvviso, come un elettrone distratto dalla sua orbita, per dislocarsi in un punto esterno, dal quale può iniziare a parlare in terza persona dell’Io che fino a poco prima presumeva di essere in prima persona. Sono diverse le storie in cui simili salti narrativi si succedono con disinvoltura, quasi ogni volta ad annunciare la precarietà della tensione che tiene avvinta ogni personalità ad un centro insondabile. Del resto, ciò non deve sorprendere, perché costituisce solo un aspetto del moto centrifugo che caratterizza la vita di molti dei personaggi dello scrittore argentino:

“La vita, mio caro Castillo – gli dice uno dei suoi personaggi, uno che lo conosceva bene - la vita è molto più di qualche catena di acido deossiribonucleico, enzimi e combinazioni di molecole. La vita è un mistero”. Lo attestano gli innumerevoli paradossi che ne scandiscono il tempo, la crudeltà che sa evocare e la spietatezza di quella forma di pietas estrema che consiste nel guardare in faccia la logica inane che nutre molte sue tragedie. Per fortuna, si tratta di paradossi e tragedie che a volte tendono a elidersi, perché può capitare che i primi riescano ad avvolgere le seconde entro una risata liberatoria e repentina.

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