Dittatori equivoci e torbidi
Curzio Malaparte e la tecnica del colpo di stato
La prima edizione italiana de La tecnica del colpo di Stato è del 1948, ma questo libro di Curzio Malaparte era già uscito a Parigi nel 1931, ovvero nello stesso periodo in cui Hitler stava diventando il protagonista assoluto della politica tedesca ed europea. Secondo Malaparte, tuttavia, Hitler si stava dimostrando non poco esitante nell’intraprendere un vero e proprio colpo di Stato, preferendo piuttosto evitare fino all’ultimo lo scontro finale con il parlamento. Come aveva fatto in precedenza Napoleone, anche lui cercò di arrivare al potere per vie più possibili “legali”.
La tattica bonapartista aveva in effetti già cercato di “mantenersi a qualunque costo sul terreno della legalità”, senza ricorrere alla violenza più di quanto non fosse strettamente necessario. Catilina era in fondo per Bonaparte un eroe mancato e non poteva costituire per lui un punto di riferimento. La tattica del 18 Brumaio prevedeva fin dall’inizio di realizzare il colpo di Stato sul terreno parlamentare: l'esistenza del parlamento costituiva “la condizione indispensabile del colpo di Stato bonapartista”. Il principio fondamentale che regolava la tattica bonapartista era la necessità di conciliare l'uso della violenza con il rispetto della legalità e per realizzare quest’obiettivo tanto delicato era necessario muoversi “secondo un piano prestabilito fin nei più minuti particolari”, escludendo “in modo assoluto la partecipazione di masse impulsive e incontrollabili a un'azione rivoluzionaria”, che avrebbe rischiato di mettere a repentaglio l’esito della partita.
L'esistenza di tattiche come quella di Napoleone ha probabilmente generato nelle stesse democrazie parlamentari un’eccessiva fiducia nelle conquiste della libertà, conquiste che in realtà erano fragili nell’Europa napoleonica ed erano destinate a rivelarsi tali anche in seguito. Un simile eccesso di fiducia è secondo Malaparte riconducibile a una certa sottovalutazione dei “catilinari” – come li definisce, ovvero di coloro che sanno come organizzare e realizzare un colpo di Stato – e a un certo disprezzo per i “generali”. Tra questi ultimi, i più pericolosi erano quelli mediocri, come Miguel Primo de Rivera o Iósef Klemens Pilsudzki (considerato da molti il padre della riconquista dell’indipendenza polacca), in quanto militari di secondo ordine la cui reputazione non rischiava di essere compromessa da un eventuale fallimento del loro tentativo di prendere il potere. In genere sono conservatori e reazionari, ma in qualche occasione alcuni di loro, non più legati al potere tradizionale o borghese, sono diventati le menti tattiche e il braccio armato di strategie politiche rivoluzionarie, dimostrando una lucidità e una freddezza sorprendenti in frangenti storici in cui, per diverse ragioni, non era facile conservarle.
In Russia, per esempio, Trotskij fu il vero artefice della presa del potere da parte dei bolscevichi nel 1917, tanto che secondo Malaparte la rivoluzione di ottobre sarebbe riuscita anche senza Lenin. Trotskij si sarebbe potuto impadronire del potere “anche se Lenin fosse rimasto in Svizzera e non avesse avuto nessuna parte della rivoluzione russa”. Lenin, certo, fu lo stratega della rivoluzione, colui che cercò di fornirle il più possibile una base di massa; ma nel momento decisivo la sua strategia, da sola, senza la tattica del colpo di Stato messa in campo da Troskij, si sarebbe rivelata inadeguata e insufficiente.
Leggendo Cioran che parla con Dio
Come è capitato a molti santi e mistici, anche il grande scrittore e saggista rumeno Emile Cioran ebbe con Dio un rapporto poco conciliante. Nel suo caso, sia la fede che la sua negazione, sia l’amore per Dio che l’odio per Dio, si fondavano su un rapporto autentico con la sofferenza, un rapporto cioè privo da infingimenti ed esente da strategie consolatorie. Come per Dostoevskij, anche per Cioran la sofferenza è infatti “la causa unica e sola della coscienza”. È solo grazie alla sofferenza che noi possiamo smettere di essere delle marionette, ed è solo grazie ad essa che noi possiamo acquisire la sensazione d’esistere.
Del resto, già prima di Dostoevskij i grandi tragici greci ce lo avevano insegnato: in base alla legge che sta a fondamento della tragedia attica, la legge del to pathei pathos, la conoscenza deriva essenzialmente dal dolore. “Gli uomini – scrive Cioran – si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri”. Giacomo Leopardi, per esempio, lo aveva capito molto bene, come si evince, in particolare, da un verso contenuto ne L’ultimo canto di Saffo, là dov’è scritto che “arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. Solo il dolore, infatti, può essere veramente conosciuto, solo esso non è per noi misterioso e quindi solo seguendo la traccia che lascia nella nostra vita possiamo in qualche modo intravederne un senso.
Dieci, cento, mille cose buone.
Come un’argomentazione faziosa possa conseguire risultati opposti rispetto a quelli che si propone
In un libro uscito pochi mesi fa, un giovane studioso, Francesco Filippi, cerca di dimostrare che l’opinione piuttosto diffusa secondo la quale il fascismo avrebbe “fatto anche cose buone” è falsa. Le argomentazioni che adduce per farlo toccano tutti i punti principali dei pochi meriti solitamente attribuiti al regime fascista. Per quanto tali argomentazioni partano spesso da premesse almeno opinabili, ne riporteremo qui di seguito alcune a titolo di esempio in maniera diffusa e testuale, così da poter far apprezzare il rigore logico delle stesse argomentazioni insieme allo spessore dell’obiettività che le ispira.
Si potrebbe iniziare la rassegna di alcuni dei punti salienti della trattazione con un tema che viene di solito percepito come “gratificante”: sebbene Filippi ammetta che la tredicesima mensilità, denominata “gratifica natalizia”, sia stata “inserita ufficialmente il 5 agosto 1937 dalla Camera delle Corporazioni fascista all’articolo 13 del contratto collettivo nazionale di lavoro degli impiegati dell’industria”, egli precisa tuttavia che “nessuna altra categoria venne inserita tra quelle meritevoli di un innalzamento del salario a fine anno. Non si trattava infatti di una norma di ampliamento dei diritti dei lavoratori nel loro complesso, ma di un provvedimento ad hoc per una categoria che era bacino di consenso del regime: i cosiddetti colletti bianchi, che formavano la piccola borghesia italiana e che sognavano la sicurezza di un posto fisso che li strappasse alla precarietà; quelli, per intenderci, che cantavano ‘Se potessi avere mille lire al mese’ ”. Quindi, a quanto pare, quella “gratifica natalizia”, poiché riguardava una sola categoria di lavoratori, non può essere considerata una “cosa buona”.
Verso un nuovo medievo
Le riflessioni Nikolaj Berdjaev sul destino della democrazia in Russia
“L'individualismo, l'atomizzazione della società, la sfrenata concupiscenza mondana, la sovrappopolazione illimitata e la smodata pletora dei bisogni”: sono questi, secondo Nikolaj Berdiaev, gli ingredienti principali del materialismo economico, per il quale la vita spirituale dell'uomo è un’illusione priva di valore. Il socialismo, d’altro canto, non fa che sviluppare e portare alle estreme conseguenze questa prospettiva materialistica e non rappresenta in fondo che “il trionfo vivo dei suoi principi latenti e la loro piena diffusione”. Esso mutua “dalla società borghese capitalista il suo materialismo, il suo ateismo, i suoi lumi superficiali, la sua ostilità nei confronti dello spirito e di ogni vita spirituale, la sua frenesia di vivere e di godere, la sua lotta per gli interessi egoisti, la sua incapacità di concentrazione interiore”.
Nicolaj Berdiaev è stato uno dei più brillanti filosofi e critici letterari russo-ucraini del Novecento. In Nuovo Medioevo – il saggio che, uscito nel 1923, gli conferì notorietà internazionale - spiega perché dopo il trionfo di due varianti solo apparentemente opposte dello stesso modello culturale materialistico non possa che profilarsi l’esigenza di un nuovo medioevo, per il quale tornerà ad essere sostanziale ciò che nei tempi moderni viene invece considerato superfluo. In questa nuova epoca della civiltà si potrà infatti tornare “a un tipo religioso più elevato” e a rivalutare la sfera spirituale come l’unica possibilità per opporsi all’attuale decadenza.
A uscire da quest’epoca di decadenza il bolscevismo ci ha provato, ma non c’è riuscito, perché partiva dagli stessi presupposti materialisti che intendeva superare. Essendo una “allucinazione dello spirito” poté conquistare il potere perché corrispondeva in quel momento allo stato morale malato del popolo russo, esprimeva “esteriormente la sua crisi morale interna, l'abbandono della fede, la crisi della religione”. Per cercare di far fronte a simili malattie morali la democrazia liberale non poteva essere di alcun aiuto, e nemmeno il socialismo liberale e umanitario. Solo i bolscevichi potevano dar vita a un tipo di regime che fosse espressione del “singolare sentimento di distacco dalle cose terrene” che il popolo russo ha sempre manifestato e che è sconosciuto ai popoli dell'Occidente. Il popolo russo, infatti, “non si è mai sentito legato alle cose della terra, alla proprietà, alla famiglia”, e più in generale non si è mai sentito legato alla nozione stessa di diritto e di cittadinanza. La stessa religione ortodossa ha sempre valorizzato “l'idea del dovere, non l'idea del diritto”. I diritti della borghesia non hanno mai avuto presso il popolo russo una grande rilevanza.
Un cuore pieno di simboli... nel diario d'un istante
È la purezza del dolore che genera la poesia. Nessuna poesia potrebbe aver mai avuto luogo senza l’ombra del dolore necessario a far risuonare l’eco delle sue parole. E la morte, si sa, è maestra nel generare dolore. La principale, e l’ultima, che non lascia spazio a ulteriori infingimenti, non a menzogne o a diatribe.
La morte è sempre la morte di qualcun altro, come dice Heidegger, e quindi noi siamo condannati a poterne fare esperienza solo per interposta persona, ma in qualche caso la morte di un’altra persona può essere tanto devastante da trasfigurare completamente il senso della nostra presenza del mondo, oppure da renderlo ancor più riconoscibile e nitido, come prima, forse, non era mai stato possibile coglierlo. Nella misura in cui ci siamo rapportati al mondo e agli altri in modo trasparente, l’unica morte che ci è concesso di vivere può purificare e rendere limpido ogni sentimento che durante la vita precedente sia rimasto, anche solo in parte, sospeso o indecifrato.
Ma la morte è anche apparenza, mancanza di sostanza, non essere per eccellenza. Una metamorfosi sommessa, un dileguarsi nel nulla per farsi eterni, per trovare nel nulla la propria consistenza definitiva. Come scrive Fernando Pessoa in una poesia, è un momentaneo sottrarsi allo sguardo, un divenire invisibili per un tempo imprecisato: “La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio”.
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