Dieci, cento, mille cose buone.
Come un’argomentazione faziosa possa conseguire risultati opposti rispetto a quelli che si propone
In un libro uscito pochi mesi fa, un giovane studioso, Francesco Filippi, cerca di dimostrare che l’opinione piuttosto diffusa secondo la quale il fascismo avrebbe “fatto anche cose buone” è falsa. Le argomentazioni che adduce per farlo toccano tutti i punti principali dei pochi meriti solitamente attribuiti al regime fascista. Per quanto tali argomentazioni partano spesso da premesse almeno opinabili, ne riporteremo qui di seguito alcune a titolo di esempio in maniera diffusa e testuale, così da poter far apprezzare il rigore logico delle stesse argomentazioni insieme allo spessore dell’obiettività che le ispira.
Si potrebbe iniziare la rassegna di alcuni dei punti salienti della trattazione con un tema che viene di solito percepito come “gratificante”: sebbene Filippi ammetta che la tredicesima mensilità, denominata “gratifica natalizia”, sia stata “inserita ufficialmente il 5 agosto 1937 dalla Camera delle Corporazioni fascista all’articolo 13 del contratto collettivo nazionale di lavoro degli impiegati dell’industria”, egli precisa tuttavia che “nessuna altra categoria venne inserita tra quelle meritevoli di un innalzamento del salario a fine anno. Non si trattava infatti di una norma di ampliamento dei diritti dei lavoratori nel loro complesso, ma di un provvedimento ad hoc per una categoria che era bacino di consenso del regime: i cosiddetti colletti bianchi, che formavano la piccola borghesia italiana e che sognavano la sicurezza di un posto fisso che li strappasse alla precarietà; quelli, per intenderci, che cantavano ‘Se potessi avere mille lire al mese’ ”. Quindi, a quanto pare, quella “gratifica natalizia”, poiché riguardava una sola categoria di lavoratori, non può essere considerata una “cosa buona”.
Verso un nuovo medievo
Le riflessioni Nikolaj Berdjaev sul destino della democrazia in Russia
“L'individualismo, l'atomizzazione della società, la sfrenata concupiscenza mondana, la sovrappopolazione illimitata e la smodata pletora dei bisogni”: sono questi, secondo Nikolaj Berdiaev, gli ingredienti principali del materialismo economico, per il quale la vita spirituale dell'uomo è un’illusione priva di valore. Il socialismo, d’altro canto, non fa che sviluppare e portare alle estreme conseguenze questa prospettiva materialistica e non rappresenta in fondo che “il trionfo vivo dei suoi principi latenti e la loro piena diffusione”. Esso mutua “dalla società borghese capitalista il suo materialismo, il suo ateismo, i suoi lumi superficiali, la sua ostilità nei confronti dello spirito e di ogni vita spirituale, la sua frenesia di vivere e di godere, la sua lotta per gli interessi egoisti, la sua incapacità di concentrazione interiore”.
Nicolaj Berdiaev è stato uno dei più brillanti filosofi e critici letterari russo-ucraini del Novecento. In Nuovo Medioevo – il saggio che, uscito nel 1923, gli conferì notorietà internazionale - spiega perché dopo il trionfo di due varianti solo apparentemente opposte dello stesso modello culturale materialistico non possa che profilarsi l’esigenza di un nuovo medioevo, per il quale tornerà ad essere sostanziale ciò che nei tempi moderni viene invece considerato superfluo. In questa nuova epoca della civiltà si potrà infatti tornare “a un tipo religioso più elevato” e a rivalutare la sfera spirituale come l’unica possibilità per opporsi all’attuale decadenza.
A uscire da quest’epoca di decadenza il bolscevismo ci ha provato, ma non c’è riuscito, perché partiva dagli stessi presupposti materialisti che intendeva superare. Essendo una “allucinazione dello spirito” poté conquistare il potere perché corrispondeva in quel momento allo stato morale malato del popolo russo, esprimeva “esteriormente la sua crisi morale interna, l'abbandono della fede, la crisi della religione”. Per cercare di far fronte a simili malattie morali la democrazia liberale non poteva essere di alcun aiuto, e nemmeno il socialismo liberale e umanitario. Solo i bolscevichi potevano dar vita a un tipo di regime che fosse espressione del “singolare sentimento di distacco dalle cose terrene” che il popolo russo ha sempre manifestato e che è sconosciuto ai popoli dell'Occidente. Il popolo russo, infatti, “non si è mai sentito legato alle cose della terra, alla proprietà, alla famiglia”, e più in generale non si è mai sentito legato alla nozione stessa di diritto e di cittadinanza. La stessa religione ortodossa ha sempre valorizzato “l'idea del dovere, non l'idea del diritto”. I diritti della borghesia non hanno mai avuto presso il popolo russo una grande rilevanza.
Un cuore pieno di simboli... nel diario d'un istante
È la purezza del dolore che genera la poesia. Nessuna poesia potrebbe aver mai avuto luogo senza l’ombra del dolore necessario a far risuonare l’eco delle sue parole. E la morte, si sa, è maestra nel generare dolore. La principale, e l’ultima, che non lascia spazio a ulteriori infingimenti, non a menzogne o a diatribe.
La morte è sempre la morte di qualcun altro, come dice Heidegger, e quindi noi siamo condannati a poterne fare esperienza solo per interposta persona, ma in qualche caso la morte di un’altra persona può essere tanto devastante da trasfigurare completamente il senso della nostra presenza del mondo, oppure da renderlo ancor più riconoscibile e nitido, come prima, forse, non era mai stato possibile coglierlo. Nella misura in cui ci siamo rapportati al mondo e agli altri in modo trasparente, l’unica morte che ci è concesso di vivere può purificare e rendere limpido ogni sentimento che durante la vita precedente sia rimasto, anche solo in parte, sospeso o indecifrato.
Ma la morte è anche apparenza, mancanza di sostanza, non essere per eccellenza. Una metamorfosi sommessa, un dileguarsi nel nulla per farsi eterni, per trovare nel nulla la propria consistenza definitiva. Come scrive Fernando Pessoa in una poesia, è un momentaneo sottrarsi allo sguardo, un divenire invisibili per un tempo imprecisato: “La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio”.
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Johan Huizinga e l'imbarbarimento della civiltà
Ne La crisi della civiltà Johan Huizinga – l’autore, tra molte altre opere, di due capolavori della storiografia di ogni tempo come L’autunno del medioevo e di Homo ludens - manifesta preoccupazioni analoghe a quelle evidenziate da Josè Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse: entrambi, lo storico e il filosofo, registrano un imbarbarimento della cultura, dello spirito e della società nell’età contemporanea che sono strettamente collegabili con il ruolo sempre più decisivo assunto in essa dalle masse.
La critica avanzata da Huizinga può essere riassunta dalle seguenti osservazioni e dal successivo quesito: “la prospettiva di un mondo civile abbandonato a un suo proprio dinamismo, a un sempre crescente dominio delle forze naturali, a una sempre più piena e immediata pubblicità di quanto accade, ha in sé molto più dell’incubo che della promessa di una civiltà purificata, ripristinata, innalzata. Desta visioni di insopportabile sovraccarico e di schiavitù spirituale. La prospettiva di una civiltà che continua a svolgersi ci ispira da gran tempo l’ansiosa domanda: lo svolgimento culturale cui assistiamo non è piuttosto un processo d’imbarbarimento?
Per imbarbarimento – spiega Huizinga di seguito - si può intendere un processo culturale, in virtù del quale una situazione spirituale d’alto valore venga a poco a poco soffocata e ricacciata indietro da elementi di più basso livello. Può essere incerto se i rappresentanti dell’elemento basso e di quello alto debbano necessariamente fronteggiarsi sotto l’aspetto di masse e di élite. A ogni modo, ove si voglia affermare questa popolarità, bisognerà assolutamente svuotare i concetti di massa e di élite di qualsiasi contenuto sociale, e considerarli solo in quanto espressioni di atteggiamenti spirituali. Così intese la cosa anche Ortega y Gasset nella sua Rébelion de las masas.”
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In Ricordo di Remo Bodei
Remo Bodei su Hegel, Goethe, i romantici e la modernità.
Remo Bodei è stato senz’altro uno dei filosofi italiani più eminenti di questi ultimi decenni, oltre che uno dei pochi italiani che fossero conosciuti e apprezzati all’estero. Si è spento il 7 novembre scorso, all’età di 81 anni. Alla cerimonia di commiato che si è svolta due giorni dopo nel cortile della Sapienza a Pisa, c’erano colleghi, lettori e allievi di varie generazioni, perché il suo insegnamento e la sua opera sono stati coerenti con i suoi valori e il suo carattere.
Bodei credeva nella vocazione dialogica della filosofia, vocazione che non ha mai cessato di valorizzare con il suo esempio. Era una persona mite e cordiale, e quest’aspetto della sua indole e del suo pensiero traspariva non solo dalle sue lezioni e dal suo modo di conversare, ma anche dal complesso della sua opera, che senza lasciarsi costringere in ambiti specialistici ha spaziato tra problematiche anche molto diverse rimanendo sempre “fedele ai classici” e fornendone spesso letture originali.
La filosofia moderna e contemporanea, in particolare tra il XVII e il XX secolo, ha rappresentato forse il suo campo d’indagine privilegiato, che però includeva anche la psicoanalisi, la letteratura, le scienze, la religione e, più in generale, la società. In un suo libro di alcuni anni fa, Scomposizioni, prese a pretesto un frammento di Hegel per introdurre il lettore ad una differenza ancor oggi significativa e attuale: secondo quanto sostiene Hegel, gli uomini che non riescono ad attingere la vita in maniera armonica e piena sono essenzialmente di due tipi: coloro che rispettano e assecondano le regole loro imposte dalle istituzioni e dal costume, pur soffrendone e desiderando inconsciamente d’evaderle; e coloro che, pur essendo coscienti della violenza esercitata su di loro dalle circostanze storiche e sociali, tendono a considerare tale violenza come inevitabile, coessenziale alla struttura della società, e decidono quindi di sfuggire quest’ultima rinchiudendoci nell’oasi del proprio mondo interiore.